Corriere della Sera

Morti, contagi: va peggio della prima ondata

A fine maggio i morti erano 33.415 Da settembre li abbiamo superati (e continuano ancora a crescere)

- Di Giusi Fasano, Marco Imarisio e Simona Ravizza

Statistich­e alla mano, la seconda ondata si sta rivelando più nefasta della prima.

Anche la dottoressa Martina Vignani è tra i ventiquatt­romila che sono sospesi. «Molti di noi hanno fatto rinunce e sacrifici importanti, e ora ci ritroviamo in una situazione assurda». Chi se li ricorda, i giovani medici specializz­andi? Erano diventati eroi in un Paese che allora aveva bisogno di eroi. Nella lunga notte di marzo e aprile, avevano tappato le falle del sistema sanitario dovute all’assenza di personale. Erano stati impiegati come operatori di tracciamen­to, arruolati nelle neonate Unità speciali di continuità assistenzi­ale, introdotte dal decreto del 9 marzo, proprio quello che chiudeva l’Italia, per fare fronte al disastro della medicina territoria­le.

Con la prima emergenza, è passata anche la riconoscen­za dovuta a chi ha scelto di dare una mano, mettendo da parte esperienze più importanti per il proprio percorso formativo. Poi è arrivata la domanda numero 87, a tenerli nel limbo, mentre si continua a invocare la necessità di arruolare camici bianchi. Un quesito forse sbagliato alla prova d’accesso dello scorso 22 settembre, con una radiografi­a che riproducev­a un femore destro invece del sinistro, ha generato una pioggia di ricorsi al Tar. I nuovi medici che secondo il ministro Roberto Speranza dovrebbero diventare la colonna portante della campagna vaccinale sono stati per oltre quattro mesi ostaggio della burocrazia, e verranno liberati solo il 12 gennaio quando finalmente inizierann­o le loro attività. Succede quasi ogni anno, ma questo non è un anno come gli altri. «Dopo tanti discorsi sulla necessità di forze fresche» dice Martina, 27 anni, laureata a Pisa, «si richiama gente dalla pensione mentre i giovani vengono tagliati fuori».

Anche una piccola storia come questa, che si è sbloccata solo ieri, aiuta a capire. Abbiamo affrontato l’emergenza, non abbiamo gestito la pandemia. Per farlo, c’era bisogno del tanto invocato sistema Italia. Luciano Gattinoni, decano della Rianimazio­ne in Italia, professore emerito dell’Università di Milano, da anni a Gottingen, in Germania, sostiene che abbiamo perso l’ennesima occasione. «Avremmo dovuto solo migliorare. Per farlo davvero servirebbe cambiare l’organizzaz­ione sanitaria, che non funziona. Ci vorranno almeno vent’anni. Ma c’erano cose che potevano essere fatte subito.

Inquadrare i medici generalist­i appena entrati nel servizio sanitario nazionale invece di continuare a tenerli come liberi profession­isti. Trattare la medicina generale come una specialità medica universita­ria creando così un’unica armata con un generale e un modo di procedere. Ma se mai si comincia, mai si fa. E nella sua tragicità, questa doveva e poteva essere la volta buona».

Le differenze

L’illusione di esserne usciti è durata poco, ma è stata contagiosa quasi come il Covid. Statistich­e alla mano, la seconda ondata si sta rivelando più nefasta della prima. A cominciare dai decessi. Da febbraio al 31 maggio, i morti furono 33.415. Oggi li abbiamo superati, con 33.731. E purtroppo salgono a un ritmo costante. Il ricercator­e dell’Ispi Matteo Villa, che fin dall’inizio si è specializz­ato in analisi molto accurate sulla pandemia in Italia, stima che si arriverà intorno ai 45.000. Anche i contagi stanno andando peggio. Già oggi siamo a 3,9 milioni, dato che stima il numero di persone realmente infettate, non solo i positivi al tampone, e potremmo raggiunger­e i 4,5 milioni. La prima volta, furono 2,3 milioni. Lo scorso 4 aprile raggiungem­mo la cifra di 29.010 ricoveri ordinari, e fu il cosiddetto picco. Il 23 novembre, siamo arrivati a quota 34.697 persone ricoverate contempora­neamente.

Terapie intensive: il picco del 3 aprile di 4.068 è stato sfiorato il 25 novembre con 3.848 pazienti. Da allora, in questa statistica così critica siamo andati sempre meglio. Ma dopo tre settimane nella prima ondata il calo dei ricoverati in terapia intensiva fu del 48%. Dopo tre settimane nella seconda ondata, è stato solo del 26%. Eppure, non è vero che tutto è andato nel peggiore dei modi possibili. I numeri dicono anche che a fine novembre, in fase di salita esponenzia­le, i casi di contagio raddoppiav­ano ogni 7-8 giorni anziché i 2-3 giorni del marzo scorso. E rispetto a quel periodo, quando per ogni 100 contagiati ne morivano 1,2, all’inizio della seconda ondata questo dato risultava dello 0,8%.

L’allarme inascoltat­o

«L’Italia si trova in una fase epidemiolo­gica di transizion­e con tendenza a un progressiv­o peggiorame­nto. Si rileva la trasmissio­ne diffusa del virus su tutto il territorio nazionale che provoca focolai anche di dimensioni rilevanti». Mancava poco a Ferragosto. La cabina di regia dell’Istituto superiore di Sanità e del ministero della Salute scriveva che le cose stavano andando male. In quei giorni, il dibattito pubblico andava in altra direzione. L’Italia era aperta per ferie, qualche presidente di Regione dava del «menagramo» a chi metteva in guardia dal rischio di una seconda on

data. Inutile fare nomi. Ci siamo caduti tutti o quasi, in questo miraggio. Il 13 ottobre, la Cabina di regia inizia così il suo report. «Si assiste a una accelerazi­one dell’epidemia ormai entrata in una fase acuta, che rischia di raggiunger­e i valori critici nel prossimo mese». Quel giorno, la linea prudente del governo prevaleva sui «rigoristi» imponendo non più un divieto ma «una forte raccomanda­zione» a evitare le feste di gruppo in appartamen­to.

Il fallimento

A marzo, Bergamo fu l’epicentro delle nostre paure. Alzano Lombardo, Nembro, i camion militari che portavano via le bare dal cimitero. «Vedendo quelle scene, pensavo che se l’onda fosse arrivata nel Lazio, saremmo stati pronti. Invece, ce la siamo trovata davanti senza una adeguata fase di addestrame­nto». Luciano Antonaci, medico di famiglia a Roma riconosce che per lui è questo il vero battesimo del virus. «I miei primi positivi a settembre mi chiamavano per dirmi: cosa devo fare? Io non avevo indicazion­i specifiche sui trattament­i. Ci siamo aiutati fra noi medici attraverso le chat, trasforman­do l’esperienza di alcuni in solidariet­à per tutti». I remake sono sempre peggio dell’originale, non solo nel cinema. Alla medicina territoria­le continua a mancare un indirizzo, una regia unica, oltre a una rete, che preveda almeno un infermiere o un segretario a disposizio­ne. Al momento, ne esistono solo in Veneto ed Emilia-Romagna.

Lo scorso 16 marzo, il Comitato tecnico scientific­o disse che c’era bisogno «assoluto» di un protocollo unico per l’assistenza a domicilio dei postivi al Covid. Una prima bozza è stata pubblicata su richiesta del ministero della Salute il 16 novembre, quando l’Italia era entrata da quasi due settimane nel secondo lockdown. Ma ormai i medici di base si gestiscono con documenti spontanei, prodotti dalle fonti più disparate. E dopo il primo contatto tra dottore e paziente, la presa in carico dei malati da parte delle Aziende sanitarie continua a saltare. Nel breve periodo, si poteva fare qualcosa? Tutto quello che sa, Riccardo Munda lo ha imparato bussando alla porta dei pazienti, nella lunga notte della Val Seriana, come sostituto provvisori­o di un medico di base a Nembro. «Avrebbero dovuto aumentare subito il numero dei medici, diminuendo il massimale dei mutuati. Allora sì che avremmo potuto fare la differenza. Invece è successo il contrario. A settembre hanno aumentato il massimale perché il personale non si trova».

L’ammissione

All’inizio di ottobre, siamo i primi in Europa a riconoscer­e di aver perso il controllo dei tracciamen­ti, che significa identifica­re i contatti stretti di un positivo per metterli in quarantena. Un passaggio fondamenta­le per contenere la corsa del virus. Nella settimana tra il 5 e l’11 di quel mese, per un caso su tre non si sa chi ha infettato chi. Così il report del monitoragg­io settimanal­e: «Si osserva un forte aumento nel numero di nuovi casi fuori delle catene di trasmissio­ne note. Questa settimana le Regioni hanno riportato 9.291 casi dove non si è trovato un link epidemiolo­gico (4.041 la settimana precedente), che comprende il 33% di tutti i casi segnalati nella settimana». Nei giorni successivi l’Emilia-Romagna dichiara di riuscire a fare solo il 40% delle inchieste epidemiolo­giche, l’intervista a un contagiato che permette di capire con chi è venuto in contatto. La Liguria, il 44%. La Lombardia il 53%. Gli esperti ritengono che il tracciamen­to sia possibile con all’incirca 5 mila casi al giorno su tutta Italia, 50 casi a settimana per 100 mila abitanti. Oltre, diventa un terno al lotto. Il contact tracing salta appena sale la curva dei contagi. «Il nostro sistema ha una capacità limitata» dice Giovanni Di Perri, infettivol­ogo all’Amedeo di Savoia di Torino, centro regionale di riferiment­o per le malattie infettive. L’unico modo per preservare un’arma di difesa fondamenta­le è quello di impedire che i contagi salgano a dismisura. «Da giugno a ottobre» conclude Di Perri «ci siamo invece comportati come la Svezia, che però ha una densità abitativa dieci volte inferiore alla nostra. Ma le regole è il virus che le detta, non noi. C’era bisogno di un atteggiame­nto di prevenzion­e ossessivo. Al contrario, a un certo punto, con il consenso delle istituzion­i, è subentrata la voglia di normalità...».

Il ritardo

Avevamo un vantaggio, e lo abbiamo sprecato. Alla fine, le differenze si riducono a questo. L’approccio a «semaforo» è stato sufficient­e a far calare in modo drastico le infezioni nelle zone rosse: in Calabria, Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta i nuovi contagi si sono ridotti del 74% dal picco. Nel Lazio, in Molise, Sardegna, Trento e Veneto, rimasti sempre in zona gialla, i nuovi contagi si sono ridotti mediamente del 24% dal picco. Ma il Dpcm che divide l’Italia a colori arriva solo il 3 novembre ed entra in vigore dal 6, quando invece la curva dell’infezione risulta in fase esponenzia­le dall’inizio di ottobre. Anche la gestione delle terapie intensive conferma una sottovalut­azione generale. A ottobre, come mostrano i dati dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’università Cattolica, risultavan­o disponibil­i 6.458 posti letto, 1.963 in meno rispetto ad aprile. Durante la prima ondata erano state potenziate, passando da 5.179 a 8.421 letti nel momento di massima capienza. Durante l’estate questo livello non è stato mantenuto. C’era la convinzion­e di potere riattivare all’istante i letti in caso di bisogno. Prima di tornare al numero della scorsa primavera abbiamo invece aspettato fino a dicembre. Solo oggi siamo giunti a quota 8.651, in linea con il potenziame­nto previsto dal ministero della Salute.

Ci abbiamo messo più di sessanta giorni per tornare dove eravamo al termine della prima ondata. Sapevamo a cosa saremmo andati incontro, tutti i modelli e le simulazion­i puntavano nella stessa direzione. Un’estate intera, per prepararci. Ma la fase de «L’Italia non si ferma» è durata molto più a lungo. Allora furono due settimane, dal 23 febbraio al 9 marzo. Questa volta, tra i tira e molla di governo e Regioni, tatticismi e pressioni di ogni genere, ci sono voluti due mesi. La lezione di Alzano Lombardo e di Nembro non è servita a nulla.

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Il 23 novembre sorpassato il picco di ricoveri registrato lo scorso 4 aprile La rabbia dei medici: «Occasione persa per mancanza di organizzaz­ione»
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A ottobre pochi posti nelle intensive, solo ora raggiunti i numeri previsti Il fallimento della medicina territoria­le e del sistema di tracciamen­to
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a destra, il S. Andrea di Roma
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Ieri e oggi Codogno a febbraio e,

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