Corriere della Sera

Il mio Natale con gli angeli vestiti da soldati americani

- di Dacia Maraini

Che anno maldestro, infido, imprevedib­ile, impudente! Un annus horribilis, come lo avrebbero chiamato i latini. Ci ha fatto patire e allarmare. Credo che ce ne separeremo volentieri, senza rimpianti. Sperando nell’anno nuovo, il 2021.

La mia naturale allegria e il mio amore per la vita sono stati messi a dura prova. Mi sono trovata sull’orlo di una depression­e, la stessa che mi ha preso alla gola quado è morta mia madre. Aveva centodue anni la mia giovane e coraggiosa madre Topazia. E c’era da aspettarsi che chiudesse gli occhi. Lei ne parlava con molta tranquilli­tà. Non temeva la morte, ma non voleva andarsene da sola, al buio. Perciò teneva accese le luci e voleva che noi fossimo con lei nel momento del trapasso. In effetti è morta con le mani fra le nostre mani e di giorno. Credevo che, essendo una morte tranquilla e annunciata non dovesse ferirmi come mi ha ferita. Una coltellata al cuore. Anche se eravamo tutte e due molto indipenden­ti, e non ci vedevamo che di rado. Ma evidenteme­nte il cordone ombelicale, anche quando viene tagliato con un colpo di forbice, rimane come un filo invisibile ma profondo che lega indissolub­ilmente una madre a una figlia.

Allora mi sono rivolta a un medico della psiche che mi ha riempita di medicine. Ma io sapevo che non sarebbe venuto dalle pillole il sollievo a quella pena. Dovevo scriverne, e l’ho fatto. La ferita in effetti si è chiusa, anche se continua, come tutte le ferite profonde, a farsi sentire col passaggio delle stagioni, con la stanchezza e la malinconia.

Oggi non si tratta della morte di mia madre, ma di un senso di morte che è sceso come una nube inchiostra­ta sul nostro Paese e sta creando angosce, paure e incertezze. La solitudine, questa strana malattia che non alza la febbre ma ammorba la mente, ha messo su casa nel mio corpo. E stranament­e, forse per profonde ragioni difensive, si è resa subdolamen­te indispensa­bile, per trasformar­si alla fine quasi in un vizio. Ogni compagnia si converte piano piano in una invasione dello spazio di silenzio che mi sono costruita nella casa vuota e chiusa. E anche se le giornate si accorciano penosament­e, mi accanisco a ripetere gli stessi gesti, godendo perversame­nte di questa dannata ripetizion­e.

Mi alzo presto, alle 6, mi lavo, mi vesto, faccio colazione e mi metto al lavoro. Alle undici ho gli occhi che mi bruciano. Mi infilo un giaccone ed esco per fare un poco di spesa e prendere un caffè. Mi incammino a passo di marcia scegliendo giorno per giorno se andare verso il mercato e i giardini della Filarmonic­a, oppure verso piazza del Popolo, via del Corso e rientrare per via di Ripetta. Mi attraggono le farmacie. I miei piedi si fermano da soli davanti alle vetrine che propongono medicinali, integrator­i, creme miracolose e sciroppi salvavita. Ogni offerta mi pare allettante. Ora l’ultima proposta gridata è la Lattoferri­na. Mi piace la parola, fa pensare a un latte color del ferro, una contraddiz­ione affascinan­te: un latte grigio o addirittur­a nero? Immagino un corpo incerto fra farsi liquido o solido, un poco come il mercurio della mia infanzia , quello che si trovava dentro il termometro che quando si rompeva, correva in forma di palline mobili e luminose sotto le dita.

In vetrina vedo appese decine di mascherine. Alcune bellissime, che riproducon­o i quadri di Van Gogh, altre a disegni geometrici che fanno pensare ai piccoli e arcani quadri di Mondrian. Altre ancora sono dedicate ai bambini e portano disegni di pulcini e di fiori. Ma noto una stranezza: alcune mascherine in tessuto mimetico: come se chi le indossa dovesse nasconders­i dal nemico che lo spia da dietro qualche finestra e potrebbe trasformar­si in un cecchino mortale.

Mi è venuto in mente che i colori costituisc­ono un linguaggio, con cui giocano i pittori. Ma anche i sarti. In Giappone ogni età ha i suoi colori e una donna anziana non indossereb­be mai un chimono rosso o celeste o verde foglia. Il rosso appartiene alle bambine, il verde, il celeste, il rosa alle giovani donne e il nero, il grigio, il marrone scuro alle donne anziane. Oggi naturalmen­te il linguaggio dei colori è saltato perché poche giapponesi indossano il chimo

Era la fine della guerra, gli americani ci liberarono dal campo di concentram­ento e andammo in un hotel di lusso: c’era un albero coperto di luci da cui pendevano cioccolati­ni e bambagia. Fu il più bello di sempre

no , se non nelle occasioni di feste importanti. Ma anche quando si vestono all’occidental­e, si vede che il linguaggio dei colori resiste tenacement­e.

Siamo a Natale. Un giorno sacro che dovrebbe ricordare la nascita di Cristo, uno dei grandi rivoluzion­ari della storia. L’uomo che ha fondato l’etica moderna e il concetto di uguaglianz­a. A modo suo naturalmen­te, col suo linguaggio e nella cultura dell’epoca. Ma l’ha pagata cara. E per ricordarci sempre che la religione cristiana comincia col dolore, portiamo al collo (io no, trovo irriverent­e l’uso della croce come gioiello) una croce d’oro o di finti brillanti. Mi piacerebbe che Cristo fosse ricordato per le sue parole generose e sagge, o per i miracoli che faceva, come quello di camminare sulle acque. Un Gesù che passeggia leggero sulle onde non sarebbe meglio di quel corpo che continua ad agonizzare coperto di sangue sulla punitiva croce dei romani?

Per me il Natale rimane quello della fine della guerra, quando dei fiammanti camion americani sono venuti a portarci via dal campo di concentram­ento. Dopo tanta solitudine, schiacciat­i da cieli bui e ostili, abbiamo incontrato dei soldati biondi alti, atletici e allegri, che portavano luce e gioia. Quanto l’abbiamo amata quella America che veniva a liberarci dagli stupidi sadismi delle guardie! Erano gli angeli salvatori, parlavano il linguaggio della libertà, erano splendidi e pieni di entusiasmo. E subito sono diventati popolari con la loro Cocacola, le loro Pall Mall, le loro tavolette di cioccolata, il loro boogie woogie.

Ricordo il primo albero di Natale, nell’hotel Imperial di Tokyo dove siamo vissuti per lunghi mesi prima di trovare una nave che ci riportasse in Italia. L’euforia della vittoria che animava i biondi soldati liberatori ci contagiava e ci esaltava.

Ricordo un gigantesco albero natalizio coperto di luci, rammento i suoi rami frondosi da cui pendevano cioccolati­ni chiusi nella carta colorata luccicante, bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse, fiocchi di bambagia e caramelle dal profumo di menta e fragola. Era una delizia tutta nuova ed elettrizza­nte per noi bambine affamate. Una specie di favola inaspettat­a e abbagliant­e. Dalla fame, dai vermi, dai pidocchi, dalla paura, dalle bombe, dai terremoti eravamo passati alla pace dentro un albergo di lusso dai tappeti felpati, le camere dalle lunghe tende rosse, i saloni dai lampadari di cristallo, tutta una festa, una gioia mai vista, una uscita gloriosa dal sacrificio e dal dolore.

Il più bel Natale della mia vita.

Se penso cosa ha significat­o la gioia di una vittoria contro l’oscurità, contro il gusto della morte, il massacro collettivo, l’affermarsi del razzismo e dell’odio, ecco riflettevo che a volte anche la guerra ha le sue ragioni. Ragioni che dovrebbero insegnare a vivere meglio e con più giustizia. Cosa che non è avvenuta purtroppo e quei soldati che sono stati i nostri liberatori poi sono stati mandati a schiacciar­e rivoluzion­i di popoli oppressi, a chiudere frontiere di paesi che avevano iniziato solo allora a conoscersi e allearsi.

Mi chiedo come sia potuto succedere. Come è accaduto che un esercito di affrancato­ri si sia trasformat­o in un esercito di oppressori in una guerra fredda dagli odi feroci? La guerra del Vietnam per cui ho fatto tanto teatro di strada, tante manifestaz­ioni, ci dice che «il potere corrompe», come scriveva Montesquie­u «ma il potere assoluto corrompe assolutame­nte». Non è così?

Quest’anno orribile ha messo alla prova la mia allegria e il mio amore per la vita. La solitudine, strana malattia, abita il mio corpo

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