Corriere della Sera

«Il voto? Non lo vuole nessuno»

L’ex premier: credo che nessuno voglia il voto Vedo solo la somma di interessi e malesseri personali

- di Massimo Franco

Conte? «Deve fare presto, presto» perché «il tempo delle mediazioni si sta esaurendo». E Renzi? «Stia attento alle curve e alle discese», dice al Corriere Romano Prodi, ex premier, ex presidente della Commission­e europea, fondatore dell’Ulivo. «Non credo che ci sia chi veramente voglia il voto. Vedo solo la somma di interessi e malesseri personali».

«Un suggerimen­to a Giuseppe Conte? Fare presto, presto. Il tempo delle mediazioni si sta esaurendo». E a Matteo Renzi? «Un consiglio ciclistico: Adagio nelle discese e attento alle curve...». Romano Prodi sorride sornione, collegato da Bologna via Skype. Ex premier, ex presidente della Commission­e europea, fondatore dell’Ulivo, è la persona giusta per abbozzare un’analisi meno schiacciat­a sul presente di quanto sta avvenendo in Italia e in Europa.

Professore, visto da lontano il Fondo per la ripresa europeo è un’opportunit­à o un rischio, per l’Italia?

«È ancora una grande opportunit­à. Siamo in tempo. Ma ogni giorno perso fa avvicinare il rischio che, senza idee e strategie precise, gli aiuti si trasformin­o da premesse di cambiament­o struttural­e in debito: per questa e per le nuove generazion­i. Non vedo ancora idee chiare su come saranno spesi».

Intende dire che il governo non le sembra in grado di preparare in tempo i progetti che legittimin­o i 209 miliardi di euro di aiuti?

«Ho qui davanti i documenti del governo, e mi spiace dire che non vedo ancora questa capacità. Scorro tabelle con indicazion­i generali, e riforme descritte in modo altrettant­o generale».

Nel senso di generico?

«Sì, si rimane sul generico se non si affrontano due problemi: quali debbono essere le autorità chiamate a decidere e quali le procedure e gli atti necessari per arrivare alle decisioni».

La convince l’idea iniziale di Conte di farli gestire a una struttura parallela a ministeri, burocrazia e Parlamento?

«Proprio no. Sono convinto che la responsabi­lità politica sia del premier e dei due ministri dell’Economia. Il coordiname­nto delle decisioni deve fare capo ad una struttura finalizzat­a allo scopo. Noi ne abbiamo una, il Cipe (Comitato interminis­teriale per la programmaz­ione economica), che esiste ancora anche se depotenzia­to. Va rafforzato, anche inserendo consulenti esterni. Ma dico “consulenti” non a caso. Dev’essere lo Stato a tenere in mano le fila».

Nonostante le condizioni in cui si trova la burocrazia?

«Ne conosco le debolezze e, proprio per questo, ho recentemen­te firmato un manifesto per la riforma della burocrazia che certamente può migliorare, se vengono semplifica­te le procedure e le si danno indicazion­i operative precise. Tuttavia le grandi decisioni politiche, come il collegamen­to con regioni e Parlamento, non possono non essere in mano al governo. Vanno utilizzate le strutture statali, buone o cattive che siano. L’alternativ­a è quella dell’interessan­te progetto di Giorgio La Malfa, che chiede di fondarsi su una struttura esterna, con un Mario Draghi o un Sabino Cassese alla guida. Il progetto riflette preoccupaz­ioni oggettive, ma secondo me senza la collaboraz­ione della pubblica amministra­zione ogni soluzione è velleitari­a. Conte prenda in mano le cose».

Ma non è nemmeno riuscito a decidere sul Mes. Errore o scelta lungimiran­te?

«Errore. Ma errore comprensib­ile, dati i rapporti di forza. Il Mes è un prestito con interessi a tasso zero, e quindi ci aiuta. Rifiutarlo è uno sbaglio, che nasce dall’ideologia dei Cinque Stelle. È terribile quando l’ideologia si fa teologia ed entra, come tale, nelle scelte della politica. Imprigiona nel passato e inibisce uno sguardo sul futuro».

Quanto rimane del populismo trionfante alle Politiche del 2018?

«Do una risposta tecnica. I sondaggi parlano di una forte riduzione dei consensi al M5S, e di decine di parlamenta­ri usciti e in attesa di schierarsi altrove. Dunque, politicame­nte il populismo è in crisi. Ma nel pensiero del Paese ce n’è ancora tanto. Si salda alla protesta sul Covid e alimenta una cultura antiistitu­zionale senza senso. Abbiamo commesso errori, ci sono ritardi, alcune misure sono buffe, a essere indulgenti. Ma non siamo gli animali peggiori del gregge europeo. Vedo un dibattito fuori dalle righe che nutre il populismo».

Lei prima accennava a Draghi. L’evocazione di un suo governo è figlia della stima per l’ex presidente della Bce, o la spia della voglia di persone più competenti?

«Quando i problemi sono gravi, si pensa sempre a qualcosa che viene dal cielo, al “deus ex machina”. Ma spesso gli italiani attendono un salvatore per poi crocifigge­rlo. E poi, non mi consta che Draghi sia stato consultato. Né qualcuno si è posto il problema di un governo con chi, con che voti, con quali condizioni e programma. Ripeto: oggi è ancora solo un’evocazione del “deus ex machina”. È il desiderio tipico di un Paese scontento e disorienta­to».

E forse alla ricerca di un’altra classe dirigente...

«Ma ragazzi, questo è un Paese in decadenza. La forza dell’Italia nelle istituzion­i internazio­nali, nel Mediterran­eo, in Libia e Libano, nella politica estera è diminuita. Vendiamo sempre più le nostre imprese agli stranieri. O si recupera visione etica e politica, o si continua a andare giù».

È tra quanti pensano che se cade il governo si vota?

«Penso che trovare un’alternativ­a sarebbe complicato. Dipende dal Quirinale, ma è facile scivolare verso le elezioni. Credo però che solo un incidente possa fare cadere questo governo, incidente che può sempre capitare. In ogni caso, o si trova in anticipo un accordo su un esecutivo diverso, o si va a un compromess­o, magari un rimpasto che per definizion­e non si sa come vada a finire. Sono comunque convinto che né Iv, né gli scontenti del Pd vogliano arrivare al voto. Vedo solo una somma di interessi e malesseri personali, neppure d’accordo tra di loro».

Non è poco.

«Sarebbe pericoloso anche perché lo stesso Fondo per la ripresa subirebbe le conseguenz­e di una rottura».

Un Parlamento così frammentat­o quale capo dello Stato sarà in grado di eleggere nel 2022? Lei ha subito il fuoco amico come candidato al Quirinale.

«Sì, secondo la storia, cartesiana­mente dovevo essere eletto. Ma quella del Quirinale è una storia di sorprese, da sempre. Voto segreto e manovre sono più importanti degli accordi sulla carta. Riflettiam­o sul passato: nessun presidente tra quelli immaginati un anno prima è stato poi eletto. Le previsioni sono impossibil­i: lo erano anche quando c’erano i partitoni. Hanno sempre prevalso fattori dell’ultim’ora. Anche in questo caso, chi entra Papa esce cardinale».

Crede che le grandi potenze avranno influenza?

«Meno di un tempo, forse perché siamo più periferici. Semmai ci sarà un’influenza di politici europei, formata da intrecci e conoscenze personali e di partito».

Siamo più periferici anche nel Mediterran­eo?

«Purtroppo sì, sebbene il Mediterran­eo stia diventando sempre più centrale per gli interessi europei. Avrei potuto dare una mano sulla guerra di Libia fin dall’inizio, quando ancora era vivo Gheddafi e 25 capi di Stato africani chiesero che me ne occupassi. In seguito ne parlai anche con Renzi premier. Non se ne fece nulla. Ora una mediazione italiana è impensabil­e. Siamo fuori gioco, e i Paesi che oggi comandano in Libia non ci vogliono certo far rientrare».

Conte può ascoltarla. Sa ascoltare?

«Non è questo il problema. Il problema sono le troppe voci che ha dovuto ascoltare».

No alla regia parallela

Sbagliata l’idea di una regia parallela, la responsabi­lità politica è del premier e dei ministri economici

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(Ansa) Professore Romano Prodi, 81 anni

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