Il giudice ragazzino sarà beato «Assassinato in odio alla fede»
Papa Francesco ne riconosce il martirio. «La mafia un fenomeno anticristiano»
La Fiesta speronata e crivellata di pallottole lungo la strada da Canicattì ad Agrigento, alle 8,30 del mattino; e poi, già ferito a una spalla, la fuga a perdifiato oltre il guardrail e giù tra le pietraie del vallone, le ultime parole mormorate dal «giudice ragazzino» ai suoi carnefici, «picciotti, ma cosa vi ho fatto...». Rosario Livatino aveva 37 anni, quando i killer mafiosi della «Stidda» lo uccisero il 21 settembre 1990, e presto sarà il primo magistrato dichiarato beato dalla Chiesa (e più tardi il primo santo: a meno di considerare, prima degli Stati moderni, Tommaso Moro).
Ieri mattina Papa Francesco ha ricevuto il cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, e ha autorizzato il riconoscimento del «martirio» di Livatino, ucciso «in odio alla fede». Come decise Benedetto XVI per don Pino Puglisi, il riconoscimento del martirio porta direttamente alla beatificazione, senza bisogno di un «miracolo per intercessione», ed è un altro segnale della Chiesa contro la mafia.
Il cardinale Semeraro spiega al Corriere: «Tra le tante virtù, c’è anzitutto il riconoscimento della santità quotidiana legata al compimento del proprio dovere. E poi, come in don Puglisi, parlare di martirio significa considerare la mafia come un fenomeno anticristiano. Nel processo si è citato Tommaso d’Aquino: il martirio è conseguenza dell’odium fidei ma anche di un odio contro la virtù della giustizia, legata alla disponibilità a dare la vita come testimone di Cristo». Francesco, del resto, lo aveva sillabato nella Piana di Sibari, il 21 giugno 2014: i mafiosi «che adorano il male» sono «scomunicati».
L’anno scorso, il Papa aveva parlato di Livatino come di «un esempio non solo per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel diritto: per la coerenza tra la sua fede, il suo impegno di lavoro e l’attualità delle riflessioni».
La beatificazione si potrebbe celebrare già in primavera. Per sostenere la causa sono state raccolte quattromila pagine di documenti e testimonianze, compresa quella di uno dei killer, Gaetano Puzzangaro, all’ergastolo. Anche uno dei quattro mandanti ha testimoniato che si decise di uccidere Livatino per la sua rettitudine di uomo giusto e legato alla fede. I mafiosi lo definivano con disprezzo «santocchio», bigotto, perché frequentava la parrocchia di San Domenico, a Canicattì. Prima di entrare in Tribunale ad Agrigento, pregava nella chiesa di San Giuseppe.
Nell’agenda di lavoro ritrovata dove fu ucciso aveva scritto «STD»: Sub tutela Dei, «sotto la protezione di Dio». Il suo primo giorno da magistrato, a 26 anni, aveva scritto: «Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». L’ex procuratore Giancarlo Caselli ha ricordato ieri la sua frase più famosa: «Non importa essere credenti, importa soprattutto essere credibili».