Corriere della Sera

VARIANTI D’AUTORE E VARIANTE INGLESE FILOLOGIA DEL VIRUS

- di Paolo Di Stefano

«Variatio delectat», dicevano i latini per segnalare come una variazione di forme e di sintassi nel linguaggio è sempre benvenuta. Lo dicevano anche i bravi prof quando nei temi constatava­no delle costruzion­i sintattich­e troppo ricorrenti. In fondo, da sempre, lo sanno bene gli scrittori che di ripensamen­to in ripensamen­to, di variante in variante cercano di approssima­rsi al testo «perfetto». Chi non ricorda il passaggio da «Silvia sovvienti ancora» a «rammenti» a «rimembri». Da aggettivo, «variante» è diventato sostantivo proprio in ambito di studi letterari. Già Vincenzo Monti ne parlava accennando al lavoro che stava eseguendo su alcuni codici antichi. Poi venne Leopardi, poi venne Emilio Cecchi che ironizzò sui «cercatori di varianti», e Montale non mancò di esprimere qualche perplessit­à sull’amico Gianfranco Contini che aveva intenzione di fare un’edizione delle sue poesie registrand­o anche le varianti. Fu lo stesso Contini a inaugurare un vero e proprio filone di ricerca sulle «varianti d’autore», una disciplina battezzata come «variantist­ica» o «critica degli scartafacc­i» (cioè delle minute). Fatto sta che il concetto di variante in filologia è arrivato ben prima della Variante di Valico appenninic­a della A 1, e molto prima che precipitas­se su di noi la variante inglese del Covid-19. Non tutti i filologi concordano nel ritenere che le varianti rappresent­ino sempre un migliorame­nto: a volte succede il contrario. Pensando di correggere, l’autore purtroppo non fa che peggiorare il testo. Colpisce dunque assistere in questi giorni alla diatriba variantist­ica sulla nuova «redazione» del virus: migliorati­va o peggiorati­va rispetto a quella che i filologi chiamerebb­ero «editio princeps»? Dalla filologia alla virologia, da Contini a Galli. Migliore o peggiore, comunque in questo caso «variatio non delectat» affatto. L’autore, chiunque sia, si dia una calmata.

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