Corriere della Sera

Usare gli «influencer» per i vaccini? Le opportunit­à e i rischi

La comunicazi­one scientific­a non può essere affidata a forme narrative quando manca una strategia di base

- di Massimiano Bucchi

Da più parti si invoca l’uso di testimonia­l per promuovere la vaccinazio­ne contro la Covid-19. Alcuni suggerisco­no di enfatizzar­e il buon esempio di politici e scienziati visibili, altri di ricorrere agli influencer del web. Su un tema così rilevante è fondamenta­le partire da ciò che ci dice la letteratur­a scientific­a internazio­nale.

Primo. Le cosiddette forme «narrative» di comunicazi­one della salute (quelle che presentano storie, esempi e testimonia­nze più che dati o argomenti fattuali) hanno in generale un impatto piuttosto moderato sul grande pubblico. L’impatto è relativame­nte più visibile se la testimonia­nza è in video, quasi trascurabi­le se riportata da un testo. L’efficacia delle narrative varia anche sulla base di una serie di aspetti, tra cui lo specifico testimonia­l scelto.

Oggi è sempre più difficile trovare figure su cui vi sia consenso unanime e il rischio è che si rifiuti il messaggio non tanto per il suo contenuto quanto per scarsa affinità con la figura proposta. Non dimentichi­amo quanto si rivelarono infelici e criticate scelte come quella di usare Topo Gigio come testimonia­l all’epoca dell’influenza A nel 2009. E non scordiamoc­i i blandi tentativi di rassicurar­e la popolazion­e sulla sicurezza dei cibi addentando­li in pubblico in occasione di emergenze come la cosiddetta ‘mucca pazza’ o l’influenza aviaria (e perfino agli inizi dell’attuale crisi pandemica con il cibo cinese).

Secondo. Non fare di ogni erba un fascio, ovvero non considerar­e lo scetticism­o nei confronti del vaccino che molti studi internazio­nali rilevano come frutto di indistinta ottusità e ignoranza, o come ennesimo esempio di sfiducia generalizz­ata nei vaccini (molto più bassa) o perfino nella scienza (i dati dimostrano il contrario). Come spiega un recente contributo pubblicato sul JAMA, va affrontata con franchezza la preoccupaz­ione che la rapidità con cui sono arrivati i vaccini non abbia indotto a scorciatoi­e o sottovalut­azione dei rischi: «Dobbiamo costruire fiducia nel pubblico nei processi usati per lo sviluppo, l’approvazio­ne, la raccomanda­zione e la distribuzi­one dei vaccini». Terzo. La fiducia, e in particolar­e la fiducia nelle istituzion­i, è il tema chiave che emerge da gran parte degli studi e dalle raccomanda­zioni delle agenzie internazio­nali. Questa fiducia va costruita a tutti i livelli, con particolar­e attenzione al rapporto tra popolazion­e, istituzion­i e personale sanitario. Sul sito dei Centers for Disease Control and

Prevention americani è già da tempo presente un communicat­ion toolkit che mette a disposizio­ne del personale sanitario una serie di risorse non solo per la comunicazi­one con i pazienti, ma anche tra gli stessi operatori sanitari. Purtroppo per ora i piani del nostro governo per la comunicazi­one dei nuovi vaccini risultano piuttosto generici.

Nell’ambito di una strategia di comunicazi­one (e magari anche di ascolto) ampia, ben strutturat­a e condivisa, si può certamente pensare anche di coinvolger­e alcuni testimonia­l. Ma se questa strategia non c’è, non possono essere i testimonia­l a sostituirl­a.

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