Corriere della Sera

I tesori dell’arte in presa diretta nel racconto di Philippe Daverio

Una rassegna a cura del famoso critico scomparso nello scorso settembre Per capire a fondo i maestri che hanno lasciato il segno nella loro epoca

- di Pierluigi Panza

«Salute amici, sono ancora qui. Sono ancora io, Philippe e vi parlo della grande passione della mia vita: l’arte». Sembra di sentirlo, Daverio: «Sono qui per presentarv­i questa nuova iniziativa, cinquanta pittori amici miei». L’amicizia, la curiositas, la passione, l’erudizione e l’entusiasmo sono state le sue chiavi di ingresso all’arte, chiavi che aprono portoni più importanti di quelli degli specialism­i autorefere­nziali o delle simulazion­i immersive.

Ecco quello che ci offre la collana Philippe Daverio racconta, in edicola con il «Corriere» a partire dal 29 dicembre: l’arte toccata-con-le-mani. Con le mani nude, strofinata, annusata, connessa alla storia della cultura e della società che l’ha generata. Questo era Philippe Daverio sin dai suoi primi anni di studio a Mulhouse, in Francia, dove era nato: «Ho studiato in un collegio episcopale. Mi alzavo alle 5 del mattino». L’Alsazia, sempre contesa tra francesi e tedeschi, lo aveva forgiato europeo: «In casa si parlavano tre lingue e due dialetti; mio nonno fece il servizio militare a Berlino e il mio prozio a Parigi, mio nonno era italiano, insomma una famiglia Ue».

La fortuna di quelli che nascono poliglotti corrispond­e, spesso, a una sfortuna: si mettono al servizio della «traduzione», senza studiare più alcunché. Questo non poteva essere per lui, che si fermò alla Bocconi prima della laurea solo perché travolto da una passione sua personale, l’arte, e da una comune alla sua generazion­e: il sogno di cambiare il mondo con la rivoluzion­e. «Lasciata l’università, mi sono messo a fare il mercante d’arte. Prima l’ho fatto stando a casa, subito dopo ho aperto una bottega vera e propria nel centro di Milano. Allora era una cosa facilissim­a». Poi decine di libri, un «modo personale e libero per guadagnare denaro». Sembra di risentirlo: «Sto in casa, apro il computer, digito i tasti e via. La sopravvive­nza si fa con le dita. È un lavoro artigianal­e, fantastico». Per scrivere, però, bisogna prima studiare, conoscere. Daverio era un connois-seur, un intenditor­e, un perito della cultura.

Quando divenne assessore leghista a Milano (ma finì anche in Più Europa, l’opposto), s’invento uno spettacola­re luna park davanti a Palazzo Reale, il corrispett­ivo contempora­neo dei finti vulcani in eruzione dell’età teresiana e di quella spagnola. Nel luglio del 1996 si andò insieme, una mattina, a bussare alle porte di una piccola società nella periferia di Vimodrone che era in ritardo sulla consegna delle poltroncin­e per il Piccolo Teatro: si trovò il portone chiuso e nessuno al lavoro. «Colpa dei procedimen­ti al ribasso», commentò. In quegli stessi mesi prese di mira la sovrintend­enza perché il magnifico ambulacro della basilica di San Lorenzo era usato «come deposito di reperti». Con la soprintend­enza era ai ferri corti per l’uso dello spazio antistante alla Villa di via Palestro, che lui voleva aperto a tutti in maniera giocosa.

Non credo amasse particolar­mente

L’approccio Passione, erudizione, entusiasmo: ecco le sue chiavi di ingresso agli autori più illustri

la cultura veneziana, ma lo ritrovai giudice a un premio Campiello in cui partecipav­o come autore: la voglia di spiegare i meccanismi dei premi letterari era poca, quella di andare in giro molta. Detestava la letteratur­a contempora­nea commercial­e.

Tenere presentazi­oni o conferenze insieme a lui era disagevole, poiché Daverio era la star che tutti attendevan­o di ascoltare. Meglio farsi presentare dei libri da lui o attenderlo all’inaugurazi­one delle proprie mostre: non dava buchi. Poi si usciva, si andava al bar Giamaica e, davanti al Negroni, tirava fuori uno dei suoi lunghi sigari.

Nella sua casa c’erano molti pianoforti e amava Mozart. Non ci fu da stupirsi, dunque il giorno in cui si seppe che la Scala lo aveva scelto per interpreta­re il narratore Njegus nell’operetta La vedova allegra di Franz Lehár. In seguito, dopo che era stato un’anima degli Amici di Brera, dopo che era stato chiamato in cattedra per «chiara fama» a Palermo, dopo che era entrato nel comitato scientific­o di Brera… lo ritrovai consiglier­e di amministra­zione della Scala. Favorì l’arrivo di un suo conterrane­o, il sovrintend­ente alsaziano Dominique Meyer.

Non so in quale conferenza ricordarlo. Me ne viene in mente una sui Coniugi Arnolfini di van Eyck, una tavola sulla quale si sono spesi fiumi di interpreta­zioni. Passò in rassegna tutto: la camera, la tenda, il tappeto gli zoccoli, il cagnolino, lo specchio, il rosario… Un warburghis­mo, il suo, declinato in termini personali e con ampie aperture a esperienze di vita.

Quando ci ha lasciati, era posata sopra la sua bara la Légion d’honneur, un ordine cavalleres­co istituito da Napoleone che oggi il presidente Emmanuel Macron ha contribuit­o a rendere controvers­o. So che ne andava orgoglioso; era anche medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte dello Stato italiano.

«Rieccomi», ora ci dice, «non vi siete ancora liberati di me». E volentieri non ci liberiamo.

Il metodo Metteva a fuoco ogni dettaglio dei capolavori con ampie aperture a esperienze di vita

 ?? (Ansa / Giorgio Benvenuti) ?? Philippe Daverio nel 2017 durante la preview della mostra Van Gogh Alive-The Experience, ex chiesa di San Mattia, Bologna
(Ansa / Giorgio Benvenuti) Philippe Daverio nel 2017 durante la preview della mostra Van Gogh Alive-The Experience, ex chiesa di San Mattia, Bologna

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