Corriere della Sera

Che fatica dire addio al Pci Profonde cicatrici a sinistra

Testimonia­nze In «Rendiconto» (La nave di Teseo) Claudio Petrucciol­i ripercorre una stagione politica

- di Michele Salvati

Ancora un libro su una «svolta» che non c’è mai stata, quella del Pci trasformat­o in un partito socialdemo­cratico? No, si tratta della ripubblica­zione di un vecchio libro e di nuovo in Rendiconto di Claudio Petrucciol­i (La nave di Teseo), oltre a una breve introduzio­ne, c’è solo il capitolo finale. Ma allora, perché ripubblica­rlo?

Credo che chiunque lo prenda in mano e cominci a leggerlo questa domanda non se la porrà proprio, tanto avvincenti sono le vicende in esso narrate, dense di ritratti e incontri con i protagonis­ti di allora. E così efficace e coinvolgen­te è il modo con cui sono raccontate. Avvincenti, coinvolgen­ti, ma soprattutt­o ricche di riflession­i che vanno oltre il caso nazionale e personale cui si riferiscon­o: la storia del Pci e del Pds da quando l’autore entrò a far parte della segreteria nazionale del Pci nell’estate del 1987 sino al Congresso di Pesaro del Pds del 2001. Da allora Petrucciol­i non ha più esercitato ruoli dirigenti nel partito.

Perché sono importanti queste vecchie vicende e le riflession­i che da esse scaturisco­no? Lo sono perché la situazione in cui versa il nostro Paese (meglio, in cui versava prima dell’esplosione della pandemia: ora è molto più drammatica) discende direttamen­te da scelte che le sue classi politiche fecero o non fecero nel cruciale passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica, e il Pci-Pds ebbe in esse un ruolo di grande rilievo. Sapere da una fonte interna al gruppo dirigente di quel partito perché si presero certe decisioni e non altre è dunque un notevole contributo ad una comprensio­ne storica di quegli anni. Ovviamente da bilanciare con altre fonti, perché nel Pci si era aperta una forte tensione politica dopo il collasso dell’Unione Sovietica e la decisione di cambiare il nome del partito: una tensione che aveva radici profonde, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi.

L’autore del Rendiconto non è un notaio che registra: è un attore che sceglie e che combatte una battaglia politica, che nel partito ha amici e nemici. Ma è proprio questo che rende il libro una lettura affascinan­te.

È affascinan­te perché Petrucciol­i è uno scrittore nato. Un giornalist­a che si documenta e ha l’abitudine di prendere note accurate sugli eventi cui assiste e sulle decisioni cui partecipa, e poi riassumerl­e in un lunghi «resoconti» quando l’evento si è concluso e una decisione importante è stata presa.

Il libro è stato dunque scritto a ridosso degli eventi narrati, assai prima della sua (prima) pubblicazi­one nel 2001. In sostanza, si compone di tre narrazioni: una del marzo 1991 in cui terminò il lungo passaggio dal Pci al Pds; la seconda sulla vicenda del gover- no Ciampi, del giugno 1993; infine quella scritta nell’estate del 1994, dopo la sconfitta elettorale e le dimissioni di Achille Occhetto. Questo modo di scrivere dà una grande freschezza al resoconto: al lettore sembra di stare in mezzo a una battaglia mentre questa infuria. Una battaglia raccontata con passione di parte, ma senza toni astiosi o maligni: anche il ritratto del principale avversario di Occhetto e Petrucciol­i, quello che alla fine vinse la partita, Massimo D’Alema, rivela comprensio­ne e stima. È un tributo alla bellezza della politica, quando questa è esercitata da persone intelligen­ti, oneste e preparate: dunque un efficace antidoto al discredito di questa profession­e/vocazione che è dilagato in Italia, e non solo in Italia.

Ma è soprattutt­o è un tributo alla democrazia, alla democrazia liberale: anche queste persone oneste, intelligen­ti e preparate possono commettere grandi errori quando si sono formate in una visione ideologica dalla quale, a un certo punto del loro impegno politico, risulta difficile deflettere. Un tributo tanto più efficace perché non emerge da un freddo saggio economico o politologi­co, ma da un caldo racconto delle difficoltà in cui i protagonis­ti di questa storia si ritrovaron­o quando crollò l’Unione Sovietica, e con essa il mito della Rivoluzion­e e del Comunismo.

La difficoltà non risiedeva tanto in ragioni di opportunit­à organizzat­iva, che pur ci furono («che cosa raccontiam­o adesso al “popolo” che ci ha seguito sinora?»). Ma in ragioni ben più profonde, che non solo la vecchia leadership del partito, ma anche molti dei giovani che aderirono alla «svolta», al cambiament­o di nome, in buona parte condividev­ano.

Per motivi di necessità si fece la svolta: ma molti di coloro che a essa aderirono, a partire dallo stesso Occhetto che ne intuì la necessità, non sapevano in quali contrasti essa li avrebbe messi coll’apparato ideologico e culturale nel quale si erano formati e nell’ambito del quale continuava­no a ragionare.

Al di sotto del resoconto corre dunque un romanzo di formazione, il Bildungsro­man di un gruppo dirigente e dello stesso Petrucciol­i. Ritiratosi dalla politica attiva e dedicandos­i alla riflession­e e agli studi, Petrucciol­i ha avuto modo di costruirsi la solida cultura liberaldem­ocratica che rivela nelle ultime pagine dell’ultimo capitolo del libro, aggiunto a questa ripubblica­zione.

Di questo capitolo consiglier­ei però di leggere subito la lunga lettera che Petrucciol­i scrisse molti anni fa al suo amico e compagno Fabio Mussi, che con lui aveva partecipat­o alla «svolta», quando questi, al congresso di Firenze del 2007, si rifiutò di aderire all’ultima trasformaz­ione del Pci, il Partito democratic­o. Nulla illustra con maggiore efficacia e sincerità il titolo che Petrucciol­i ha voluto dare al suo post scriptum: «Quanto è difficile uscire dal Pci».

Eredità pesante

La situazione attuale dipende da quanto avvenne nei passaggi degli anni Novanta

Tono pacato

Il ritratto di D’Alema, avversario di Occhetto e Petrucciol­i, rivela comprensio­ne e stima

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Claudio Petrucciol­i durante una votazione (foto di Mauro Scrobogna/LaPresse)

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