Anche «I topi» di Albanese ci aiutano a capire la nostra realtà
Anche i topi possono aiutarci a capire cos’è un testo, sia esso un’opera letteraria, un film, un quadro, una pièce teatrale, un programma tv. Un testo è innanzitutto un’opera cosi com’è (come la conosciamo attraverso la determinazione filologica); ma un testo è anche un oggetto virtuale, cioè l’insieme delle possibili interpretazioni, che lo espandono, gli permettono di non restare imprigionato nel suo contesto d’origine (che poi rischia di diventare un pregiudizio, tale da imporre a Disney di mettere il bollino «razzista» a Dumbo). Questa breve premessa per salutare il ritorno di Antonio Albanese su Rai3 con le repliche della seconda stagione de «I topi». Quando la serie comedy è andata in onda la prima volta (aprile 2020), eravamo all’inizio dell’emergenza coronavirus, il peso del contesto era relativo. Sì certo, ci chiedevamo perché Sebastiano (Antonio Albanese) avesse deciso di vivere in un cunicolo di bunker, perché si fosse reso invisibile al mondo. Se fossero i suoi crimini ad averlo risospinto nel sottosuolo o altro. Adesso queste domande non bastano più; dopo le esperienze di lockdown, ci sentiamo tutti un po’ topi: è il contesto in cui da mesi viviamo che rosicchia la lettura iniziale.
Il Covid-19 ci ha resi come lo zio Vincenzo (Tony Sperandio): non ci muoviamo ma ascoltiamo le previsioni del traffico. Che è la nostra attuale condizione, anche se non siamo o non immaginiamo di essere criminali. E proprio la presenza di Albanese ci ricorda che si è anche avverata la profezia di un suo personaggio, il Ministro della Paura, quello che ci spaventava teorizzando che una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Ora ci siamo, ora capiamo.
Intanto dai tombini uscivano la mitologica Mariolina Sattanino, il virologo Massimo Galli, il prof. Cacciari e Andrea Scanzi (il Corrado Augias del grillismo riflessivo) per andare in processione nel salotto di Lilli Gruber. Topi o topoi?