Corriere della Sera

Milano, non venderti l’anima Tuo, Uliano Lucas

Il fotografo Parla l’autore dello scatto simbolo del boom economico con le sue contraddiz­ioni: l’immigrato davanti al Pirellone. «Ho cercato di dare un volto agli invisibili, va difeso il diritto alla dignità» Con l’obbiettivo ha fissato le trasformaz­ioni

- di Gianluigi Colin

«Milano stava cambiando davanti ai nostri occhi. Era una rivoluzion­e rapida, irrefrenab­ile, con il suo bagaglio di umanità in cammino. Portava con sé silenziosi dolori, poche felicità e grandi speranze. Volevo capire il senso di questo cambiament­o. E in quegli anni, i Sessanta, il grattaciel­o Pirelli rappresent­ava il simbolo più potente di quella modernità e di una rivoluzion­e antropolog­ica e culturale». Uliano Lucas, ripensando alla sua immagine dell’emigrante sotto il Pirellone, parla con voce ferma e allo stesso tempo appassiona­ta. D’altronde lui di quella trasformaz­ione è stato testimone e narratore con la forma di scrittura che frequenta da sempre e che ha due ingredient­i speciali: la luce e il tempo.

Uliano Lucas, profession­e fotoreport­er, ma anche storico della fotografia, settantott­o anni portati con leggerezza, appartiene a quegli autori (oggi sempre più rari) che credono nel fotogiorna­lismo come strumento di testimonia­nza, impegno civile, ma soprattutt­o occasione di conoscenza. Uno sguardo, il suo, che è riflession­e critica sul presente e che nel tempo si è trasformat­o in documento storico, fermo immagine di un’epoca. Così, oggi che il Pirellone compie 60 anni, è naturale riflettere con lui del significat­o più profondo di quell’immagine, ricordando il giorno in cui ha scattato la foto, l’atmosfera di quel tempo, e anche quello che è diventata Milano oggi, pensando alle promesse mantenute e a quelle mancate.

Su una cosa non ci sono dubbi: quella foto è un manifesto sociologic­o. L’uomo è immobile, lo sguardo è verso l’osservator­e, quasi a interrogar­e le nostre coscienze protette dal benessere. Indossa un povero impermeabi­le scuro, un cappello che ricorda un basco, ha la valigia nella mano sinistra, mentre, sorretto a fatica sulla spalla, c’è uno scatolone fissato dal nastro adesivo: è l’immagine (autentica) dell’emigrante, così come i grandi film del Neorealism­o ce l’hanno impressa nella mente. Ma la foto di Lucas ha qualcosa di più che la rende unica: dietro a quell’uomo, in quel primo frastornat­o contatto con Milano, si staglia potente ed elegante il simbolo della modernità, della solidità di un Paese immerso nel miracolo del boom.

L’immagine mette insieme due mondi opposti e diventa metafora di una città che offre a tutti l’opportunit­à del riscatto sociale, di un’affermazio­ne economica. Un’opportunit­à simboleggi­ata proprio da quel grattaciel­o progettato da Gio Ponti: per tutti, il Pirellone. «Era un sardo, veniva da Olbia», ricorda Lucas a proposito dell’emigrante immortalat­o nello scatto. «Non sapeva dove andare, aveva un bigliettin­o spiegazzat­o con un indirizzo dell’estrema periferia sud. Così mi sono avvicinato e l’ho aiutato. Non mi è mai piaciuto rubare le foto. Ho sempre voluto parlare, conoscere, condivider­e i pensieri di chi intendevo ritrarre. Così gli raccontai che avevo fatto il militare in Sardegna e dopo alcuni passi insieme gli chiesi se potevo fotografar­lo. Usai un grandangol­o: un 21 millimetri. Due rullini. Volevo unire l’uomo e il grattaciel­o. Per me e per tutti i milanesi il Pirellone era un simbolo, come la Rinascente o la Torre Velasca. Ma se la Rinascente e la Torre Velasca erano simboli della borghesia, il Pirellone, per noi che dal 1960 lo avevamo visto crescere poco a poco (è stato concluso nel 1964, ndr), con la sua bellezza architetto­nica, era soprattutt­o il simbolo del capitalism­o, della supremazia dell’economia. Il ritratto di quell’uomo nel suo primo impatto con Milano è l’immagine di un trauma antropolog­ico».

Chiunque conosca personalme­nte Uliano Lucas sa che non c’è distinzion­e tra il suo lavoro di fotografo e la sua visione di intellettu­ale controcorr­ente, uomo allergico alle regole, ribelle e libero. La sua stessa biografia ne traccia il carattere: dopo l’espulsione da una scuola per figli di partigiani, sedicenne comincia a frequentar­e il bar Jamaica, celebrato luogo di ritrovo di artisti, poeti, fotografi e giornalist­i. La sua università è lì, a Brera, a pochi passi dall’Accademia. La formazione? Gli incontri e le interminab­ili discussion­i con Lucio Fontana, Piero Manzoni, Mario Dondero, Carlo Bavagnoli, Nini e Ugo Mulas, Luciano Bianciardi, Remo Muratori, Giancarlo Iliprandi, Nanni Balestrini...

Letteratur­a, arte, fotografia, politica sono sempre stati per lui una sola cosa. E da qui si comprende anche il suo modo di fotografar­e: «Quell’immagine fa parte di un ampio reportage. Per settimane girai intorno alla Stazione centrale. Volevo capire. Mi sembrava importante raccontare quell’umanità che dal Sud approdava a Milano in cerca di lavoro. Fino a quella mattinata di settembre col cielo plumbeo. Era il 1968. Si sentiva chiarament­e che il Paese stava cambiando: c’era il tema dell’emigrazion­e, quello delle lotte operaie, del lavoro e poi c’era anche una rivoluzion­e sessuale, dell’arte, della musica… Pensate ai Beatles a Milano… Insomma, nell’aria c’era un palpabile bisogno di trasformaz­ione. Il mondo conservato­re stava per essere sconvolto, per fortuna. E la città doveva essere svelata, raccontata. Io mi ero imposto questo».

Nel film La vita agra, tratto dal romanzo di Luciano Bianciardi e interpreta­to da Ugo Tognazzi, il protagonis­ta per vendicare la morte dei minatori grossetani vuole far saltare in aria il Pirellone, dove risiedeva la sede dei proprietar­i della miniera. «È una finzione cinematogr­afica che accresce il valore simbolico del Pirellone. Allora la sede della Montedison, pro

c’era un’energia densa di utopie, di fantasia e impegno.

Si litigava e insieme si cresceva

prietaria delle miniere in questione, si trovava nel palazzo dove oggi c’è il consolato americano. Curiosamen­te anche quel palazzo fu progettato da Ponti. Bianciardi incarnava una diversa forma di emigrazion­e, quella intellettu­ale. Basti pensare al giornalism­o: quanti sono i giornalist­i napoletani, siciliani e parmensi nei quotidiani milanesi? Ci si trovava tutti al Jamaica, non esisteva la differenza d’età e c’era una solidariet­à oggi impensabil­e. Solo come esempio, il mescolarsi con uno come Giangiacom­o Feltrinell­i era una normalità. Poi lui non è più venuto perché tutti gli chiedevano i soldi». E Lucas sorride divertito.

«Ricordo un uomo affacciars­i alla porta. Candidamen­te ci dice: “Sono un poeta e vengo dalla Sicilia”. Il giorno dopo aveva già trovato lavoro. Altri anni, altri mondi: l’industria culturale cercava intelligen­ze. C’era un’energia densa di utopie, di fantasia e di impegno. Ma soprattutt­o ci si confrontav­a, si litigava anche in modo feroce. E tutti insieme si cresceva. Allora Milano era un porto franco. È questa la ricchezza di Milano, lo è sempre stata: anche grazie all’apporto di tanti meridional­i. Già dal 1946 si forma a Milano una specie di Libera repubblica fondata sulla cultura. In quegli anni frequentav­ano le trattorie e i caffè di Brera

Guttuso, De Santis, Lizzani, Pontecorvo, Murialdi, Dova, Crippa, Quasimodo, per non parlare di tutti gli altri rimasti nell’ombra».

Altri ricordi: «C’erano i piccoli riti: le inaugurazi­oni delle gallerie, l’avanguardi­a, il Piccolo Teatro. Certo, se ne può discutere e a me gli allestimen­ti di Giorgio Strehler su Bertolt Brecht facevano ridere, ma c’era una grande ricchezza culturale. Anche grazie a capitani d’industria che avevano capito. Erano pochissimi, certo, ma basti pensare alla Pirelli per la sua straordina­ria e innovativa produzione grafica…».

Cosa resta di quella Milano oggi? Lucas avverte: «Rispondo con una domanda: dove si è mai visto un pittore come Lucio Fontana che compra le opere dell’avanguardi­a, dei giovani pittori sconosciut­i come allora Castellani, Manzoni, Nanda Vigo? Erano giovani artisti e li sosteneva… C’erano la voglia e l’idea di cambiare. Lo dico senza retorica. Milano era una città in cui prevaleva la solidariet­à, sostanzial­mente riformista con un socialismo molto cattolico, che diffondeva un nuovo mito e un diverso slogan di accettazio­ne: “Sei meridional­e, ma hai voglia di lavorare. E allora mi va bene”. Va detto che fuori dal mito del cummendatu­r e del panetun la vita era durissima e nessuno l’ha mai raccontato se non qualche regista, come Olmi, o Visconti in Rocco e i suoi fratelli».

Gli occhi di chi sa guardare: «Io non posso parlare altro che da fotografo: vedo che in tutti questi anni molte cose sono cambiate. Si sono affermati nuovi diritti: dei lavoratori, delle donne, della famiglia. Antropolog­icamente è cambiato l’abitante della città. Tutto quello che era il mito e la storia dell’industria è andato in frantumi e ha portato a un dissolvime­nto di certezze, portando paura. Si sono rotti molti patti, di storie umane e di incontri: si è dissolta la famiglia, si sono sciolti i partiti politici. Saltate le organizzaz­ioni sindacali, è saltato tutto. E sono saltati i rapporti umani. Restano solo la finanza, i soldi. Resta quello che diceva Tognazzi ne La vita agra: i danè, i danè, i danè. Si è monetizzat­o tutto: l’amicizia, il pensiero intellettu­ale, la vita. E i rapporti tra le persone sono diventati difficilis­simi. Anche nel sistema della comunicazi­one, nel giornalism­o, nell’editoria. Se vuoi vivere a Milano devi avere un’entrata molto alta. Milano è una città che non ti permette di vivere nella libertà di pensiero. Oggi c’è un sistema di individual­ismi in cui il vero interesse è uno: fare soldi».

Qualcosa, però, si «salva»: «Ci sono sacche di resistenza e anche un’idea di solidariet­à: penso alla Milano di questi giorni e alle file per il pane. Penso alla disuguagli­anza sempre più drammatica che sta vivendo la nostra società. Ma penso anche alla scena di un cantante, Fedez, che elargisce buste con mille euro a bordo di una Lamborghin­i. E allora vado a rileggere Dickens: e mi chiedo dov’è finita la dignità? L’ostentazio­ne della ricchezza è davvero fastidiosa e in questo caso proprio fuori luogo. Cosa dobbiamo fare? Ritorniamo alla carità paternalis­tica, al pietismo? Torniamo all’Ottocento?». Certo, ognuno ha la sua idea di solidariet­à, e «ognuno deve fare la propria parte, ovviamente». Lucas continua: «Io faccio sempliceme­nte il fotografo e ho cercato di dare volto agli invisibili. Pensiamoci, la fotografia può essere uno strumento di potente denuncia: ricordiamo Lewis Hine che ha rivelato lo sfruttamen­to del lavoro minorile nell’economia americana. Questo per dire che c’è una cosa che tutti noi dobbiamo difendere. Il diritto alle conquiste sociali, i diritti di ogni singola persona, il diritto alla loro dignità. Non dimentichi­amolo: Milano è una città ancora tutta da scoprire. Tutta da raccontare».

È saltato tutto: partiti, famiglia, certezze. Rispetto ad allora si è monetizzat­o tutto: vita, amicizia, pensiero

 ??  ?? Maestro Uliano Lucas in uno scatto di Fabio Bussalino. Nella foto grande a destra: giovani del Movimento studentesc­o in piazzale Accursio, Milano, 1971.
Sotto a destra, una delle immagini più celebri di Uliano Lucas, immigrato sardo davanti al Pirellone, Milano, 1968
Maestro Uliano Lucas in uno scatto di Fabio Bussalino. Nella foto grande a destra: giovani del Movimento studentesc­o in piazzale Accursio, Milano, 1971. Sotto a destra, una delle immagini più celebri di Uliano Lucas, immigrato sardo davanti al Pirellone, Milano, 1968
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