Francis Scott e l’isola della felicità come illusione
«Ci stiamo trasferendo a Capri. Odiamo Roma. Sono indietro finanziariamente e devo scrivere tre racconti». A nemmeno trent’anni, nella suite all’Hotel Tiberio in compagnia di Zelda, Francis Scott Fitzgerald è un uomo sull’orlo dell’abisso e non lo sa. Ha da poco inviato l’ultima stesura de
Il grande Gatsby al suo editor negli Stati Uniti, l’amico Max Perkins. Non immagina che, solo pochi mesi dopo, uno dei più grandi romanzi della storia letteraria americana sarà un fiasco di vendite e di critica. Per il momento è sull’Isola azzurra: alcol, jazz, scorribande con gli altri artisti americani. Da qualche parte c’è Norman Douglas alle prese con le sue amate piante.
Spira un vento gelido a Capri
nell’inverno del 1925, ancor di più ne tira sul resto d’Italia: il duce ha da poco promulgato le leggi fascistissime, lo scrittore Curzio Malaparte ha aderito al Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile e la dittatura delle camicie nere si è insinuata come una malattia mortale nel midollo del Paese. Se il mondo è un disastro, a Capri è difficile rendersene conto. È sempre stato così, e sempre lo sarà.
Forse per questo, quasi un secolo dopo, mentre l’inverno della pandemia bussa costringendo il chiasso della piazzetta a tacitarsi, il rimpianto per i ruggenti anni capresi ha il sapore di lacrime amarissime. Le stesse che Fitzgerald verserà tempo dopo a Hollywood, quando cercherà di fare soldi scrivendo sceneggiature che non gli interessano e cercando di non sprofondare tra le onde dell’insuccesso letterario e umano. Capri come Hollywood. C’è qualcosa di inafferrabile che accomuna questi due luoghi così lontani. Sarà la brezza di felicità illusoria che convince ogni avventore di avere il diritto a una parte da protagonista nel film della vita, oppure saranno le intermittenti luci della ribalta sempre pronte a esplodere come supernova. Fatto sta: i faraglioni come Beverly Hills.
Italia e Stati Uniti. Scrittori, attrici, produttori, amanti. Scugnizzi in cerca del sogno americano, folle acclamanti che inseguono Brigitte Bardot nei vicoli, paparazzi all’inseguimento degli Onassis. Titoli di giornali, scatti rubati, baci proibiti. Se l’espressione
identifica ovunque un gruppo sociale elitario, a Capri si prende lo spazio di un’isola intera. Pescatori compresi. E quando il sogno finisce, resta la polvere di stelle con cui questa roccia è stata forgiata da un dio amante dello champagne. Mai prima d’oggi «il salotto del mondo» (come si usa chiamare la famosa piazzetta) è stato così affollato di fantasmi passati e presenti che hanno reso quest’isola unica al mondo. «Caro Max, dopo sei settimane di ininterrotto lavoro la prova è portata a termine...ho portato Gatsby alla vita», scrive Fitzgerald agli inizi della sua vacanza caprese. «La prova» è quel capolavoro che lo porterà dritto alle soglie dell’inferno. E chissà — non lo sapremo mai — se in quel finale da togliere il fiato, lo scrittore aveva impresso dentro di sé l’immagine delle imbarcazioni che ammirava dall’Hotel Tiberio: «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».
Se il mondo è un disastro, a Capri è difficile rendersene conto. Anche Fitzgerald lo sapeva