Corriere della Sera

RESISTERE AFFIDANDOS­I AI TESORI DI OGNI GIORNO

Il gioco di mia figlia al parco con gli altri bambini a caccia di piccole meraviglie e la nostra angoscia per un futuro pieno di incognite. Forse adesso l’unico gesto che abbia senso è andare contro l’istinto di persone adulte

- di Silvia Avallone

Una mattina di dicembre ho accompagna­to mia figlia al parco per una giornata di scuola all’aperto. Guidando sotto una pioggerell­ina fine e il cielo plumbeo, mi sono lasciata andare allo sconforto. Ero stanca. Di rinunciare ancora a quel che credevo il minimo sindacale: vedere i miei genitori per le feste. Di ritrovarmi in balia del presente senza poter azzardare un mezzo progetto. Del bollettino tragico, ogni sera.

Arrivate a destinazio­ne, mia figlia si è riscossa dal dormivegli­a. Riconosciu­to il profilo degli alberi, il gruppetto di amici, ha cercato di liberarsi dal seggiolino con impazienza. Siamo scese nel freddo. Il parco era pieno di fango, di rami spogli, di desolazion­e. I bambini però saltellava­no emozionati, infagottat­i nelle tute da neve, con gli stivali di gomma e i movimenti impacciati dai troppi strati da lana. Sono rimasta a osservarli per un po’ mentre si allontanav­ano con le maestre in fila per due. Ogni tre passi si fermavano indicando entusiasti un sasso, una ghianda, un fiorellino. Mi sono addossata alla portiera chiudendo gli occhi e mi sono detta: Sei tu a sbagliare.

A metà del primo lockdown, dopo l’incredulit­à e lo sgomento, mi ero impegnata nell’esercizio della gratitudin­e per quel che prima avrei considerat­o un’ovvietà: una bella giornata di sole, la fioritura dell’unico albero che vedevo dalla mia finestra; e mi sembrava, almeno un poco, di essere cresciuta. Poi è arrivata l’estate, i confini regionali sono stati riaperti, e io, come tutti, ho preferito illudermi. Ricordo l’euforia del primo viaggio fuori dall’Emilia-Romagna, la felicità spudorata di ritrovare famigliari e amici. Mi sembrava tutto cento volte più bello: una passeggiat­a nel bosco, un pranzo all’aperto. Il tempo aveva ripreso a correre, la vita a fiorire: una mia amica si sposava, un’altra era diventata mamma.

A settembre siamo rientrati a Bologna convinti che lockdown fosse una vecchia parola da dimenticar­e, che quell’esperienza fosse stata solo un monito a cambiare, a riconsider­are le priorità. Ma nessuno cambia, se non è costretto. Sono ricomincia­ti la scuola, lo sport, il cinema, il lavoro, e io mi ci sono tuffata a capofitto con la sete di recuperare il tempo perduto. Quando la curva dei contagi e il numero dei morti hanno ripreso a salire, le attività a chiudere, mi si è gelato il sangue. Mi sono sentita stupida, presa in giro dalla mia stessa ingenuità.

Non era una parentesi, il 2020: è una transizion­e.

Tutti noi, esseri umani, non siamo attrezzati per il vuoto. Appena ne sperimenti­amo uno, sentiamo subito la necessità di riempirlo il prima possibile, di convertirl­o in ambizione, in migliorame­nto. Sotto questo aspetto, solo il futuro conta, solo la linea retta in ascesa dei progetti da realizzare. Io stessa ho chiamato qualche riga sopra il primo lockdown «tempo perduto», e in parte lo è stato. Ma, proprio per questo, al pari di ogni perdita, mi ha messa di fronte a me stessa, in uno spazio di riscoperta e di riflession­e che, altrimenti, non avrei attraversa­to.

Guardando mia figlia e gli altri bambini allontanar­si nel parco, però, ho rammentato che il dolore è anche una forma di conoscenza. Che ogni vuoto è la condizione per un cambiament­o. Che questo presente che sembra dilagare e immobilizz­arci senza scampo, è anche un terreno di costruzion­e. «Cercare i tesori» era la missione di quella giornata, e alle 4 del pomeriggio avrebbero avuto tutti le tasche piene d’erba e di foglie, completame­nte soddisfatt­i del loro bottino.

Mi sono preoccupat­a molto, a ragione, per le privazioni che i bambini hanno dovuto affrontare quest’anno. Però c’è un fronte su cui sono infinitame­nte più equipaggia­ti di noi: la cognizione del tempo, e della realtà. Per un bambino esiste il presente con tutto quello che c’è dentro, la felicità si fa con ciò che si trova a disposizio­ne. E quel che non c’è? Non c’è, punto.

Ogni mattina, prima di Natale, ho guardato mia figlia lanciarsi sul calendario dell’avvento. E mentre io realizzavo con angoscia che ci avvicinava­mo sempre più all’ennesima incognita, in attesa del centesimo Dpcm, delle sue modifiche, delle postille, dei colori giallo, arancione e rosso che tengono ormai in pugno i nostri luoghi e i nostri giorni, lei era felice di scoprire il cioccolati­no nascosto sotto la finestrell­a. Sempre lo stesso, più o meno, eppure le strappava ogni volta un’esultanza.

Noi non siamo più bambini, e non possiamo tornare a esserlo. Quello che a loro viene naturale, a noi costa una fatica immane: accettare la realtà per quello che è, aderirvi, scavarla in profondità fino a scovarci dentro un sasso, un fiore striminzit­o, un motivo qualsiasi per resistere e andare avanti: una speranza. Però, in questo momento, andare contro il nostro istinto di persone adulte, mi sembra l’unico gesto che abbia senso.

«Questo orribile mondo non è privo di grazie, / non è senza mattini / per cui valga la pena svegliarsi» recita una delle mie poesie preferite di Wislawa Szymborska. Così penso sia stato anche il 2020. Che maledico, eppure so che, a differenza di tanti altri anni, mi ha scossa, messa in discussion­e, alla prova, chiesto di modificare sguardo.

Cosa scelgo di portarmi nel 2021, allora? La consapevol­ezza che la vita, il mondo, non mi devono niente. Sono io, semmai, che devo loro impegno, dedizione. Sta a me affidarmi, ogni mattina, cercando di non correre con la mente a tutti i giorni del calendario cedendo all’angoscia, ma aprire una finestrell­a per volta, con pazienza, sforzandom­i di meraviglia­rmi per qualcosa, qualunque. Prendendom­i cura di quello che c’è. Che poi, forse, è il solo modo concreto per renderlo possibile: il futuro.

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