GLI ORIZZONTI PERDUTI E LE FUTURE DOMANDE DI PORTATA STORICA
Impegnati da un anno nella mera sopravvivenza, non riusciamo a misurare le nostre esistenze su uno spazio temporale più ampio. Ma verrà l’ora in cui dovremo confrontarci con le conseguenze epocali del cataclisma
Impossibile non chiedersi in che cosa dovrà cambiare il nostro modello socioeconomico
Fanno dieci mesi ormai che viviamo alla giornata. Lo sguardo basso, il fiato corto, davanti a noi un orizzonte temporale che non supera il fine settimana. Il nostro calendario è scandito dai bollettini quotidiani della protezione civile, la nostra colonna sonora la urlano le sirene delle autoambulanze in transito veloce. Da quasi un anno siamo incapsulati in un tempo asfittico, immemore, vuoto d’avvenire.
Lo stato d’emergenza - proclamato per la prima volta in Italia, e dall’Italia per prima in Europa, il 31 gennaio 2020 su tutto il territorio nazionale – è, infatti, precipitato presto in uno stato d’eccezione, vale a dire in quella rara e pericolosa situazione nella quale, di fronte a una terribile minaccia, anche a costo di ledere i diritti individuali, sono imposte misure speciali ed è sospeso il rispetto delle leggi ordinarie. Ebbene, in casi come il nostro, oltre allo stato di diritto, a essere sospeso è anche ciò che potremmo chiamare «il tempo grande della storia». Paradossalmente, proprio nella sua qualità di evento storico che segna uno spartiacque, la pandemia di Covid-19, a causa della sua natura di catastrofe prolungata e lenta – una sorta di catastrofe al rallentatore – ci ha privati non soltanto di molte nostre libertà individuali, ma anche di quella suprema facoltà di misurare la nostra singola esistenza su di un metro temporale più ampio dell’angusta unità di misura della cronaca quotidiana. Da quasi un anno, precipitati nell’affannoso e umiliante compito della mera sopravvivenza, non siamo più in grado di sentire le nostre esistenze individuali e collettive come parte di uno scenario che trascenda il loro istante presente, come espressioni di un essere nel tempo che non si calcola in giorni o settimane ma in mesi, anni, decenni, secoli trascorsi e a venire.
Molti dei nostri affanni, dei nostri malesseri, molti dei nostri errori si spiegano con questa improvvisa contrazione del nostro orizzonte temporale al mero presente (una contrazione che, d’altro canto, acutizza una delle più invalidanti malattie spirituali della nostra epoca, il cosiddetto «presentismo»). Come si spiegherebbero, altrimenti, lo sciagurato abbandono ai funesti svaghi vacanzieri della scorsa estate, le carenze di programmazione in vista della probabile seconda ondata autunnale, i ritardi nel prendere atto del suo arrivo, le deliranti riaperture natalizie, i silenzi riguardo alla pianificazione sull’impiego dei fondi europei, le miserabili liti governative per la spartizione dei poteri emergenziali, la totale assenza di un dibattito riguardo a come si dovranno ripartire gli enormi costi dell’indebitamento pubblico? Qualunque sia la loro causa prossima, a livello profondo, tutti questi accecamenti vanno letti anche come sintomi di una patologia del tempo, sintomi di un tempo malato che ci imprigiona nel presente. Fa quasi un anno oramai che viviamo in una bolla temporale, in una cella soffocante il cui perimetro è tracciato da giorni senza ieri e senza domani.
Per tutte queste ragioni, se l’anno che va a finire è stato un anno interamente fagocitato dalla cronaca, quello che sta arrivando sarà un anno da intestare alla storia. E, affermandolo, non mi faccio illusioni. Non m’illudo su un sussulto collettivo delle coscienze – di governanti e governati – che le espanda spontaneamente fino ad abbracciare nella consapevolezza questo tempo più grande. So, però, che se anche il 2021 dovesse segnare sul nostro calendario – come tutti ci auguriamo – la data fatidica di regressione della pandemia, ciò che il 2020 lascerà dietro di sé sarà una terra devastata, un paesaggio di macerie che ci obbligherà a fare i conti con la storia, che ci costringerà, volenti o nolenti, consapevoli o incoscienti, a misurarci con le conseguenze storiche del cataclisma.
Chi pagherà l’enorme indebitamento supplementare di un paese già enormemente indebitato? I ricchi, gli evasori, i soliti tartassati dal fisco, le prossime generazioni? Che ne sarà di una democrazia, già indebolita, già svilita, già invecchiata, già assaltata dalla veemenza brutale dei suoi tanti detrattori, dopo che il ricorso allo stato d’eccezione si è dimostrato necessario per salvarci dalle conseguenze dei suoi malintesi e dei suoi malfunzionamenti? A quale modello di scuola e di università vogliamo che facciano ritorno i nostri figli e studenti dopo che per un intero anno le loro aule spesso decrepite, spesso «vuote» proprio quando piene, quasi sempre dimenticate dal dibattito pubblico e dall’attenzione generale – sono rimaste di necessità deserte? Quale sarà il futuro della sanità pubblica, dimostratasi letteralmente vitale eppure inadeguata di fronte alla pandemia? E quale quello del welfare state, considerato dai tanti, troppi liberisti sfrenati un cimelio del passato e rivelatosi, però, d’un tratto, indispensabile? Perché nella ubertosa pianura padana si muore più che in qualsiasi altra regione del pianeta? Cosa ci resta da fare affinché la vita possa tornare a prosperare sul pianeta e insieme al pianeta? Infine, insomma, non sarà possibile non chiedersi in che cosa dovrà cambiare il nostro modello socio-economico e i nostri stili di vita affinché il racconto delle nostre vite non scada alla cronistoria di un susseguirsi ininterrotto di crisi drammatiche eppure lente, prolungate, soffocate e soffocanti, di catastrofi al rallentatore.
Potremo, certo, voltare ancora una volta la testa e non cercare risposte a queste e ad altre domande di portata storica. Esse, però, non cesseranno di bussare alla porta delle nostre stanze climatizzate di uomini fintamente soddisfatti nelle quali, dopo ogni crisi, non smettiamo di rifugiarci, sordi al rumore del mondo, fino alla prossima emergenza terroristica, ambientale, sanitaria o finanziaria. Possiamo voltare la testa, sì, ma quelle domande continueranno a bussare alle nostre porte e non con le nocche ma con le unghie.