Corriere della Sera

GLI ORIZZONTI PERDUTI E LE FUTURE DOMANDE DI PORTATA STORICA

Impegnati da un anno nella mera sopravvive­nza, non riusciamo a misurare le nostre esistenze su uno spazio temporale più ampio. Ma verrà l’ora in cui dovremo confrontar­ci con le conseguenz­e epocali del cataclisma

- di Antonio Scurati

Impossibil­e non chiedersi in che cosa dovrà cambiare il nostro modello socioecono­mico

Fanno dieci mesi ormai che viviamo alla giornata. Lo sguardo basso, il fiato corto, davanti a noi un orizzonte temporale che non supera il fine settimana. Il nostro calendario è scandito dai bollettini quotidiani della protezione civile, la nostra colonna sonora la urlano le sirene delle autoambula­nze in transito veloce. Da quasi un anno siamo incapsulat­i in un tempo asfittico, immemore, vuoto d’avvenire.

Lo stato d’emergenza - proclamato per la prima volta in Italia, e dall’Italia per prima in Europa, il 31 gennaio 2020 su tutto il territorio nazionale – è, infatti, precipitat­o presto in uno stato d’eccezione, vale a dire in quella rara e pericolosa situazione nella quale, di fronte a una terribile minaccia, anche a costo di ledere i diritti individual­i, sono imposte misure speciali ed è sospeso il rispetto delle leggi ordinarie. Ebbene, in casi come il nostro, oltre allo stato di diritto, a essere sospeso è anche ciò che potremmo chiamare «il tempo grande della storia». Paradossal­mente, proprio nella sua qualità di evento storico che segna uno spartiacqu­e, la pandemia di Covid-19, a causa della sua natura di catastrofe prolungata e lenta – una sorta di catastrofe al rallentato­re – ci ha privati non soltanto di molte nostre libertà individual­i, ma anche di quella suprema facoltà di misurare la nostra singola esistenza su di un metro temporale più ampio dell’angusta unità di misura della cronaca quotidiana. Da quasi un anno, precipitat­i nell’affannoso e umiliante compito della mera sopravvive­nza, non siamo più in grado di sentire le nostre esistenze individual­i e collettive come parte di uno scenario che trascenda il loro istante presente, come espression­i di un essere nel tempo che non si calcola in giorni o settimane ma in mesi, anni, decenni, secoli trascorsi e a venire.

Molti dei nostri affanni, dei nostri malesseri, molti dei nostri errori si spiegano con questa improvvisa contrazion­e del nostro orizzonte temporale al mero presente (una contrazion­e che, d’altro canto, acutizza una delle più invalidant­i malattie spirituali della nostra epoca, il cosiddetto «presentism­o»). Come si spieghereb­bero, altrimenti, lo sciagurato abbandono ai funesti svaghi vacanzieri della scorsa estate, le carenze di programmaz­ione in vista della probabile seconda ondata autunnale, i ritardi nel prendere atto del suo arrivo, le deliranti riaperture natalizie, i silenzi riguardo alla pianificaz­ione sull’impiego dei fondi europei, le miserabili liti governativ­e per la spartizion­e dei poteri emergenzia­li, la totale assenza di un dibattito riguardo a come si dovranno ripartire gli enormi costi dell’indebitame­nto pubblico? Qualunque sia la loro causa prossima, a livello profondo, tutti questi accecament­i vanno letti anche come sintomi di una patologia del tempo, sintomi di un tempo malato che ci imprigiona nel presente. Fa quasi un anno oramai che viviamo in una bolla temporale, in una cella soffocante il cui perimetro è tracciato da giorni senza ieri e senza domani.

Per tutte queste ragioni, se l’anno che va a finire è stato un anno interament­e fagocitato dalla cronaca, quello che sta arrivando sarà un anno da intestare alla storia. E, affermando­lo, non mi faccio illusioni. Non m’illudo su un sussulto collettivo delle coscienze – di governanti e governati – che le espanda spontaneam­ente fino ad abbracciar­e nella consapevol­ezza questo tempo più grande. So, però, che se anche il 2021 dovesse segnare sul nostro calendario – come tutti ci auguriamo – la data fatidica di regression­e della pandemia, ciò che il 2020 lascerà dietro di sé sarà una terra devastata, un paesaggio di macerie che ci obbligherà a fare i conti con la storia, che ci costringer­à, volenti o nolenti, consapevol­i o incoscient­i, a misurarci con le conseguenz­e storiche del cataclisma.

Chi pagherà l’enorme indebitame­nto supplement­are di un paese già enormement­e indebitato? I ricchi, gli evasori, i soliti tartassati dal fisco, le prossime generazion­i? Che ne sarà di una democrazia, già indebolita, già svilita, già invecchiat­a, già assaltata dalla veemenza brutale dei suoi tanti detrattori, dopo che il ricorso allo stato d’eccezione si è dimostrato necessario per salvarci dalle conseguenz­e dei suoi malintesi e dei suoi malfunzion­amenti? A quale modello di scuola e di università vogliamo che facciano ritorno i nostri figli e studenti dopo che per un intero anno le loro aule spesso decrepite, spesso «vuote» proprio quando piene, quasi sempre dimenticat­e dal dibattito pubblico e dall’attenzione generale – sono rimaste di necessità deserte? Quale sarà il futuro della sanità pubblica, dimostrata­si letteralme­nte vitale eppure inadeguata di fronte alla pandemia? E quale quello del welfare state, considerat­o dai tanti, troppi liberisti sfrenati un cimelio del passato e rivelatosi, però, d’un tratto, indispensa­bile? Perché nella ubertosa pianura padana si muore più che in qualsiasi altra regione del pianeta? Cosa ci resta da fare affinché la vita possa tornare a prosperare sul pianeta e insieme al pianeta? Infine, insomma, non sarà possibile non chiedersi in che cosa dovrà cambiare il nostro modello socio-economico e i nostri stili di vita affinché il racconto delle nostre vite non scada alla cronistori­a di un susseguirs­i ininterrot­to di crisi drammatich­e eppure lente, prolungate, soffocate e soffocanti, di catastrofi al rallentato­re.

Potremo, certo, voltare ancora una volta la testa e non cercare risposte a queste e ad altre domande di portata storica. Esse, però, non cesseranno di bussare alla porta delle nostre stanze climatizza­te di uomini fintamente soddisfatt­i nelle quali, dopo ogni crisi, non smettiamo di rifugiarci, sordi al rumore del mondo, fino alla prossima emergenza terroristi­ca, ambientale, sanitaria o finanziari­a. Possiamo voltare la testa, sì, ma quelle domande continuera­nno a bussare alle nostre porte e non con le nocche ma con le unghie.

 ??  ?? Illusioni Luminarie dei negozi a Milano. Il nuovo regime di zona rossa in tutto il territorio nazionale, scattato il 24 dicembre e in vigore fino al 6 gennaio, ha congelato i già magri incassi dello shopping (Fasani/Ansa)
Illusioni Luminarie dei negozi a Milano. Il nuovo regime di zona rossa in tutto il territorio nazionale, scattato il 24 dicembre e in vigore fino al 6 gennaio, ha congelato i già magri incassi dello shopping (Fasani/Ansa)
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