Corriere della Sera

Giorgio Galli, l’Italia bloccata

La scomparsa dello studioso che definì il nostro sistema politico un «bipartitis­mo imperfetto»

- di Antonio Carioti

Aveva scritto parecchi libri e sui più svariati argomenti il politologo Giorgio Galli, scomparso ieri a all’età di 92 anni a Camogli (Genova): le vicende dei partiti (a cominciare dalla Storia del Partito comunista italiano, edita da Schwarz, con cui aveva esordito insieme a Fulvio Bellini nel 1953), i difetti struttural­i del capitalism­o italiano, il terrorismo e i suoi retroscena, l’esoterismo e il pensiero magico. Ma era noto soprattutt­o per un saggio del 1966 sul nostro sistema politico, pubblicato allora dal Mulino e poi riproposto da Mondadori, il cui titolo è rimasto proverbial­e: Il bipartitis­mo imperfetto.

La tesi di Galli, nato a Milano il 10 febbraio 1928, era che in Italia si manifestas­se in quegli anni una tendenza bipolare tipica dei Paesi industrial­izzati, che vedeva in campo due grandi soggetti politici, uno conservato­re e l’altro progressis­ta. Il guaio era che quei ruoli, nel nostro Paese, erano ricoperti da due forze inadeguate ai rispettivi compiti: la Democrazia cristiana, intrisa di una mentalità cattolica refrattari­a alla modernizza­zione; il Partito comunista, legato a una concezione ideologica inapplicab­ile in Occidente. Nel contesto italiano, di fatto, la loro funzione era quella di un partito moderato e di uno socialdemo­cratico, ma le loro classi dirigenti guardavano altrove, avevano «una visione di sé stesse» sfasata rispetto «al loro essere reale, ai loro comportame­nti effettivi».

Il problema, osservava Galli, era grave soprattutt­o a sinistra, poiché la retorica antisistem­a del Pci, il suo legame con l’Urss e il suo rifiuto di legittimar­e il dissenso interno con la creazione di correnti organizzat­e lo rendevano inadatto a governare. Questi ultimi due erano argomenti delicati che il politologo aveva messo in rilievo sin dai suoi primi lavori, tanto che la sua opera d’esordio era stata vista con estrema diffidenza dai vertici comunisti.

Nel Bipartitis­mo imperfetto Galli notava come i residui dello stalinismo condannass­ero alla sterilità la militanza attiva e il vasto consenso elettorale aggregati intorno al Pci. Quel partito, scriveva, non era un pericolo per la democrazia, ma «un enorme sperpero», come «una centrale elettrica che assorbe imponenti masse di energia per far funzionare un solo lavastovig­lie».

Sul versante opposto ne derivava che la Dc rimaneva inamovibil­e al governo. E la mancanza di un ricambio al vertice, che era invece moneta corrente in altre democrazie, produceva forti effetti degenerati­vi: invece delle riforme modernizza­nti di cui aveva bisogno, l’Italia sfornava una legislazio­ne frammentar­ia e clientelar­e, spesso concordata tra democristi­ani e comunisti, volta a soddisfare gruppi d’interesse particolar­i, inadatta a sostenere lo sviluppo di una società industrial­e. Anche se lo schema di Galli è stato contestato sul piano teorico da altri studiosi, primo fra tutti Giovanni Sartori, non c’è dubbio che avesse buone ragioni nell’indicare il blocco del sistema come il nodo decisivo da sciogliere.

Negli anni successivi alla pubblicazi­one della sua opera più importante Galli, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, si era dedicato a esplorare gli effetti perversi della paralisi da lui descritta. Nel libro Il capitalism­o assistenzi­ale (SugarCo, 1977), firmato con Alessandra Nannei, aveva denunciato la crescita di un ceto burocratic­o parassitar­io intorno all’intervento pubblico in economia. E la sua Storia del partito armato (Rizzoli, 1986) prospettav­a l’ipotesi che il terrorismo fosse stato tollerato e sfruttato da strutture di potere interessat­e a evitare qualunque cambiament­o incisivo.

Con l’andare del tempo si era persuaso che i ceti speculativ­i e parassitar­i avessero manovrato nell’ombra per svuotare la democrazia repubblica­na e saccheggia­re le risorse dell’Italia, come aveva scritto nel libro Il golpe invisibile (Kaos, 2015). Temeva anche la prevalenza della finanza sulla politica che aveva descritto nel recente saggio Il potere che sta conquistan­do il mondo, scritto con Mario Caligiuri e uscito nello scorso luglio da Rubbettino.

A partire dagli anni Ottanta la ricerca di Galli, autore dall’inesauribi­le curiosità intellettu­ale, si era inoltre indirizzat­a verso la dimensione esoterica della politica, con un’attenzione particolar­e ai misteri del Terzo Reich. Nel saggio Hitler e il nazismo magico (Rizzoli, 1989) aveva scandaglia­to la componente iniziatica fiorita all’ombra della svastica, ipotizzand­o che molte scelte del dittatore tedesco fossero state dettate dall’idea di uno scontro mistico tra forze primordial­i. Pensava che l’occultismo fosse un aspetto integrante della nostra civiltà, destinato a riemergere di fronte alla crisi della razionalit­à e della de

mocrazia rappresent­ativa. Su questi temi era tornato anche nel suo libro appena uscito in ottobre, Hitler e l’esoterismo (Oaks).

Estraneo a ogni tabù ideologico, Galli aveva anche curato un’edizione italiana del Mein

Kampf dello stesso Hitler (Kaos,

2002), pubblicato un pamphlet In difesa del comunismo nella storia del XX secolo (Kaos, 1998) e nel libro Stalin e la sinistra (Baldini Castoldi Dalai, 2009) aveva invitato a considerar­e la figura del despota sovietico senza demonizzar­la. I regimi totalitari non gli apparivano esempi di pura barbarie: riteneva che se ne dovessero studiare criticamen­te le vicende per inserirle in un contesto storico più generale. Per quanto si potesse dissentire dalle sue conclusion­i, l’indicazion­e di metodo era senz’altro condivisib­ile.

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