«Non ti sento»: le parole del 2020
Mai pronunciate tanto quanto ora su Zoom e Teams. Così la distanza ci ha cambiati
In queste giornate parafestive molti giornali, compreso il nostro Corriere, raccoglievano «Le Parole dell’Anno». Un esercizio utile e una riflessione salutare. I vocaboli rappresentano infatti un sintomo e una sintesi: se quanto è accaduto è rimasto nel cuore e nella mente, ha lasciato tracce nel linguaggio. Quest’anno — ci avete fatto caso? — accade poco.
Le parole del 2020 — anno cupo, ansioso e sanitario — sono talmente evidenti che sembra inutile ricordarle: mascherina, lockdown, quarantena, chiusure e riaperture, virologo, vaccino, zona rossa e via preoccupandoci.
Ma bisogna sforzarsi: scendere al piano di sotto, provare a muoversi nei nostri automatismi linguistici. Ogni grande crisi, infatti, conia espressioni destinate a durare, perché caÈ paci di transitare in nuovi contesti.
La seconda guerra mondiale ha portato nella lingua inglese (e non solo) blockbuster, in origine una bomba capace di «distruggere un isolato»; e poi meldown, la fusione nucleare, passata a significare «una manifestazione emotiva violenta, improvvisa, quasi incontrollabile». La Guerra fredda è responsabile di to go ballistic (usare le armi nucleari balistiche, poi: dare di matto). Gli anni del terrorismo internazionale hanno trasformato il vocabolo talebano: oggi indica ogni forma di intransigenza feroce.
La pandemia Covid ha operato nello stesso modo. Talvolta ha resuscitato parole, altre volte le ha cambiate (non muta solo il virus!). Gretchen McCulloch, una linguista citata dal New York Times, ha ricordato per esempio come l’espressione sia stata pronunciata «più volte quest’anno che nel resto della storia dell’umanità». In italiano potremmo tradurre: «Hai disattivato il microfono» oppure — meglio — «Non ti sento». Quante volte, durante i collegamenti Zoom (Teams, StreamYard, GoToMeeeting, Google Meet), abbiamo pronunciato quelle tre parole? Sanno di lontananza, isolamento e frustrazione. Parole 2020, senza dubbio.
possibile, volendo, personalizzare l’indagine. Cercate di immaginare quali espressioni consuete avete usato in modo inconsueto, nel corso del 2020. Poi prendete il telefono e cercatele su WhatsApp. Le cose che diciamo, infatti, sono le cose che scriviamo: soprattutto quest’anno. Le nostre chat sono una miniera silenziosa di ricordi, timori, entusiasmi, dubbi, richieste più o meno esplicite.
Inizio io, con questa parola: «collegamento». Mi sono accorto di averla letta, ascoltata e usata in moltissime occasioni. Possiamo fare un collegamento? Sei collegato? Collegato da remoto. Ora ci colleghiamo. Non riesco a collegarmi. Un bravo collega, collegato da casa. Il collegamento (inesistente) tra vaccini e autismo. Ragazzi, siete collegati? Ah va be’, non avevo messo in collegamento. Sono tutte espressioni figlie di un’abitudine nuova destinata a rimanere a lungo, e di cui non abbiamo ancora compreso a fondo la forza e le implicazioni. Fino a dieci mesi fa andavamo al lavoro e a scuola, tornavamo, uscivamo, ci spostavamo, viaggiavamo, c’incontravamo, ci stancavamo (che bello!). Nel 2020 ci siamo collegati. Continueremo a farlo? Credo di sì. Il genio di Zoom & C. è uscito dalla bottiglia, e non ha alcuna intenzione di ritornarci. Ci incontreremo di persona quando sarà utile (un gruppo creativo) o necessario (la scuola!), oppure ci fa piacere (viva gli amici e viva i ristoranti!); altrimenti, ci collegheremo.
«Collegamento» è la mia parola del 2020. Se invece dovessi scegliere un vocabolo uscito sconfitto da quest’anno incredibile sarebbe: «riunioni». Mi dispiace? Non tanto. Poiché raramente erano indispensabili, forse non è un male averle spostate quasi tutte online. Lì le riunioni rimarranno, mi sa. E noi potremo disattivare microfono e telecamera, ogni tanto, e pensare: una cosa buona, il 2020, l’ha portata.
La svolta
Ci incontreremo di persona quando sarà utile, ma continueremo sempre a collegarci