Nabokov e le farfalle perdute
Un’infanzia incantata in Russia prima che la rivoluzione spazzasse via tutto
«La nostra esistenza — scrive Vladimir Nabokov all’inizio di Parla, ricordo, uno dei suoi libri più belli appena riproposto da Adelphi— è solo un breve spiraglio di luce fra due eternità fatte di tenebre». Se la luce di quel breve spiraglio ha illuminato un’infanzia perfetta, in un luogo, la Russia dei primi del secolo scorso, ritenuto perfetto e meraviglioso, allora chi ha vissuto quelle palpitanti emozioni — come accade agli attori di una compagnia di giro che, finché ricordano le battute, si portano appresso una brughiera spazzata dal vento, un’isola incantata, un castello nella bruma — se le porterà con sé per sempre. È il possesso dell’intangibile: che non ti può togliere nessuno.
A Pietroburgo l’inverno è gelato. In occasione delle feste imperiali, nell’ovattato silenzio della notte, giganteschi monogrammi, corone e altri simboli araldici risplendono sopra i cornicioni orlati di neve dei palazzi grigi, celeste sbiadito, verde pallido.
Vladimir ha 5 anni. Accanto a lui, avvolta nella pelliccia di foca, è seduta sua madre, Elena Ivanova Nabokov. La slitta, governata da un cocchiere mastodontico, vola sul ghiaccio. Man mano che la velocità aumenta, lei, nel tipico «gesto aggraziato di una dama di Pietroburgo durante una uscita invernale», solleva il manicotto all’altezza del viso. Sulla prospettiva Nevskij brilla la vetrina del negozio inglese, dal quale, nel palazzetto signorile di via Morskaja 47, arrivano torte di frutta e sali da bagno, carte da gioco e sciroppo Golden Syrup, blazer a righe e palle da tennis bianche come talco.
La casa è ampia, su due piani. Nella semioscurità di una sala, avanza una grande lampada a cherosene dal supporto in alabastro. «Fluttua dolcemente e scende verso il basso; la mano della memoria che ora indossa il bianco guanto di un domestico in livrea, la depone al centro di un tavolo rotondo».
Dopo cena, tenendolo per mano, Elena Ivanova accompagna Vladimir a letto per il bacio della buonanotte, che così abolisce le strazianti attese del piccolo Marcel Proust a Combray; il tempo non esiste; la morte non esiste; i morti, se per caso appaiono in sogno, stanno «seduti discosti, fissando accigliati il pavimento, come se la morte fosse un un’onta, un vergognoso segreto di famiglia».
Poi viene la primavera: gli esaltanti mattini pietroburghesi della primavera artica, «feroce e tenera, umida e abbacinante», i blocchi di ghiaccio trascinati dalla Neva.
E viene l’estate, finalmente: nella grande tenuta di Vyra, dove c’è un giardino che confina con un parco, un parco che confina con un bosco di betulle profumato di muschio madido, di terriccio fertile e foglie marce; o con uno di quei «faggeti paurosamente fitti, nei quali l’unico sottobosco esistente è un tappeto di convolvoli e l’unico suono consiste nel battito martellante del cuore».
Lì, nella dimora in cui fra valletti, camerieri, cameriere, guardarobiere, cuochi, cocchieri, giardinieri, lavorano almeno una cinquantina di persone per garantire ai Nabokov la confortevole permanenza lunga 4 mesi, il primo sguardo del risveglio va alla fessura fra i bianchi scuri delle finestre, per capire se pioverà, o se c’è il sole, e si potranno cacciare le farfalle.
Cacciare le farfalle in una giornata di sole equivale all’estasi: dietro alla quale c’è ancora qualcos’altro, difficile da spiegare, come un vuoto momentaneo in cui si riversa tutto ciò che è bello e caro, un fremito di gratitudine sconosciuto. A pranzo, Vladimir Dmitrievic, il padre del giovane Vladimir, di suo fratello Sergej e delle due sorelle — l’uomo giusto e severo, affettuoso e complice, discendente da una stirpe antica di proprietari terrieri e uomini d’arme, funzionari governativi e fedeli servitori dello zar, lui stesso giurista, deputato alla Duma, ministro, da ultimo convinto liberale costretto a una precipitosa fuga, appassionato di tennis e di boxe, assassinato nel 1922 da due russi di estrema destra a Berlino — con la sua calligrafia elegantissima scrive su un foglio il menù per il giorno seguente e lo consegna al maggiordomo. Il pomeriggio, per la merenda, o se si deve celebrare un onomastico o un compleanno, sotto i tigli del viale che dal parco sfocia nel giardino sabbioso, viene allestito un lungo tavolo coperto da una tovaglia bianca, al quale siedono figli e cugini, zie e zii eccentrici, istitutori, istitutrici.
Non lontano da Vyra, nella tenuta di Batovo, è rimasta la nonna paterna. Lei si ostina a non capire. Soprattutto non capisce per quale motivo suo figlio, un uomo che in fondo apprezza i piaceri che derivano da una grande ricchezza, possa metterne a rischio il godimento diventando un liberale, e contribuendo in tal modo all’avvento di una rivoluzione che, alla lunga, potrebbe ridurlo in miseria.
Non aveva torto, vista dalla sua parte. Quando, alla fine del 1917, Lenin prende il potere, i bolscevichi subordinano immediatamente ogni cosa al mantenimento di quel potere, e ha inizio la splendida carriera di un regime fatto di massacri, campi di concentramento e ostaggi. E i Nabokov, da un giorno all’altro, perdono tutto e, con i gioielli cuciti nella fodera dei vestiti, fuggono in Crimea.
Prima, hanno fatto in tempo a salire svariate volte sul mitico Nord-Express, in servizio da Pietroburgo a Parigi, occupando, fra bambinaie e camerieri personali, un intero vagone; a respirare il vento dell’Adriatico e quello dell’oceano; a provare, tornando in patria, l’inaudita dolcezza della patria alla frontiera russa, con lo scricchiolio degli stivali nella neve, i tronchi di betulla; il rosso lucente del fumaiolo. E Vladimir ha conosciuto l’amore. Quello per Colette, la ragazzina francese con gli occhi verde cangiante, il piedino affondato nella sabbia umida di Biarritz. Quello per Polenka, la figlia del cocchiere, sorridente e ferma sulla porta dell’isba, «le nude braccia conserte sul petto nell’atteggiamento morbido e rilassato tipico della Russia rurale». Quello per le fanciulle in scarpette e calzettoni, impeccabili, alle lezioni di ballo. Quello per la quindicenne Tamara, col taglio degli occhi scuri lievemente obliquo, dovuto probabilmente a una goccia di sangue circasso. Quest’ultimo, in campagna, in città, è un amore furibondo: non c’è boschetto, spiazzo erboso, padiglione segreto, cinematografo, parco innevato che non conosca gli abbracci, i baci di Tamara e Vladimir.
Poi, con la fuga in Crimea, l’idillio s’interrompe. Tutto sta precipitando, del resto. Rimangono le lettere che i due ragazzi si scrivono e, da San Pietroburgo al Mar Nero, dal Mar Nero a San Pietroburgo attraversano la Russia devastata, in un bagno di sangue. Finché un bel giorno, siamo nel 1920, i Rossi invadono la Crimea settentrionale; i Nabokov sono costretti a fuggire di nuovo: verso l’Inghilterra e Berlino; le lettere di Tamara continueranno a cercare il loro destinatario che non risponde, «sbattendo debolmente le ali qua e là come farfalle disorientate, lasciate libere in una regione a loro estranea, a un’altitudine inadatta, in mezzo a una flora sconosciuta».
La visione
Per il romanziere la vita «è solo un breve spiraglio di luce fra due eternità fatte di tenebre»