Corriere della Sera

«Io, guarito dal Covid: più rispetto verso chi ci cura»

- Giacinto Botti

Sono stato travolto da un’onda che ti trascina in una dimensione di fragilità che mai avresti pensato di vivere. Ero in buona salute, e adottavo tutte le misure di precauzion­e, ma il virus vigliacco trova altre strade. Ho visto la paura di non farcela di tanti, la «fame d’aria», la disperazio­ne. Si impara e si riflette. È capitato a me come a centinaia di migliaia di persone. Una sera la febbre e dopo cinque giorni, ho perso l’olfatto. Mia moglie mi ha lasciato nello spazio antistante il pronto soccorso del San Raffaele di Milano, poi mi sono ritrovato solo nel triage del percorso Covid. Un’ora dopo ero nel salone allestito a parcheggio dove sono stato per quattro giorni su una barella insieme ad altri 35 pazienti. Ad assistere pazienti anche gravi e con sofferenze che mai dimentiche­rò, solo due medici e quattro infermieri. Per dieci giorni, per fortuna gli ultimi cinque in una camera confortevo­le, sono stato curato con competenza e umanità. Da paziente vedi donne e uomini, invisibili fuori ma fonte essenziale di cura e di vita per te, che mettono in pericolo se stessi e i loro cari. Hanno paura. Ho visto, sentito quanto è vitale la loro presenza nei confronti di chi soffre, intubato o dentro a un casco. Il loro sorriso, la stretta di mano, la carezza, la telefonata assistita ai parenti sono cose che vanno oltre il loro dovere. Come cittadino e sindacalis­ta mi sono sentito inadeguato, e ho provato un senso di responsabi­lità verso ogni lavoratric­e e lavoratore che opera nel comparto sanità, pubblico e privato.

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