Cerco mio padre tra gli anziani malati, soli, persi dietro il vetro
Un uomo di 81 anni, che da 52 giorni non mangia L’umanità nei gesti e nelle frasi di chi sfiora la pandemia
Ho preso appunti ogni volta che ho parlato con un medico, spesso soltanto singole parole. Così quelle parole adesso sono intrappolate fra le altre annotate per lavoro, si confondono in mezzo alle frasi che appartengono ad altre vite. «Disidratazione», «gravissimo», «morire», «tracciamento saltato», «si lascia andare»...
Appunti di Covid in ordine sparso. Racconti di sentimenti che si sovrappongono, di dolore e di speranze che si assomigliano, a casa mia come in migliaia di altre famiglie di questo Paese e in ogni angolo del mondo.
Sono 52 giorni che mio padre è tenuto in ostaggio, prima dal virus e poi dalle sue conseguenze. Non è a casa sua, non ha i suoi punti di riferimento, non gli sono accanto le figlie, i nipoti, la donna della sua vita, mia madre. E non ha di fronte i boschi delle sue lunghe camminate quotidiane. All’improvviso quelle piccole dimenticanze dei suoi 81 anni sono diventate buchi nei quali la memoria a volte precipita.
Era un altro uomo, a inizio novembre. In tutte queste settimane il virus e l’isolamento hanno lavorato per ucciderlo. Non ci sono riusciti ma è come se lo avessero trascinato in un luogo lontanissimo dal quale non riesce a tornare.
Ha avuto una fame d’aria che gli ha tolto ogni energia, non sa più camminare o stare semplicemente in piedi, mangiare è diventato un verbo senza significato, la depressione fa parte del pacchetto, come la nostalgia e i tubicini dell’ossigeno. Del suo carattere allegro sono rimaste briciole, mezzi sorrisi che si concede raramente.
È in buone mani, nel centro di riabilitazione Covid del San Raffaele di Milano. Potrebbe farcela. Eppure io lo penso come si pensa a un bambino perduto, solo, spaventato.
La solitudine dei malati, raccontata così tante volte in questi mesi, bussa da 52 giorni alla porta di casa mia, la vedo nella faccia smarrita di un uomo che si è letteralmente spezzato la schiena per dare alla sua famiglia opportunità migliori di quelle che la vita ha dato a lui.
Sono fatti di solitudine i sorrisi sfoggiati nelle videochiamate, i baci mandati con la mano sulla bocca. E la sua, la nostra solitudine ha le stesse parole di quella che a me hanno raccontato i figli di altri genitori, padri e madri che a volte non ce l’hanno fatta.
Mi è tornato in mente il bel volto di un signore mai conosciuto che si chiamava Luciano, ucciso dal virus a marzo a 78 anni. «Non so darmi pace a pensarlo da solo in quel letto mentre se ne andava», mi aveva detto sua figlia Anna in lacrime. «Avrà avuto paura? Avrà sofferto? Avranno pianto i suoi bellissimi occhi azzurri?». Il dolore narrato e intercettato in quella telefonata aveva creato un legame e nel tempo siamo rimaste in contatto, io e Anna, senza esserci mai incontrate. Quando mio padre si è ammalato le ho scritto. «È un incubo senza fine», mi ha risposto lei. «Mi sembra di rivivere quell’inferno. Sii forte e non perdere la speranza».
Un messaggio così ti fa accostare, spegnere il motore dell’auto e piangere in mezzo al nulla di una strada di campagna.
È una condizione inedita, crudele, quella della solitudine dei malati negli ospedali. Il virus la coltiva assieme alle polmoniti. Nessuno era preparato, ammesso che si possa esserlo. Sei lì, davanti a una porta, e non puoi oltrepassarla anche se sai che mai come adesso dietro quella barriera ci sarebbe bisogno di te.
Avevo letto il tweet di un collega che si chiama Davide, pochi giorni dopo il ricovero di mio padre. Diceva che suo padre era in terapia intensiva a 234 passi da casa sua, «ma non posso vederlo», scriveva, «non posso entrare, e 234 passi sono pochissimi ma sono infiniti se non puoi fare il 235esimo».
Era così, esattamente, anche per me. E quell’ultimo passo vietato mi ha fatto fare cose stupide, per esempio camminare avanti e indietro per strada, di fronte al reparto, come se essere lì e non a casa potesse cambiare qualcosa. Come se mio padre potesse sentire la mia vicinanza assieme alla mia voce.
La sua — deformata dagli alti flussi dell’ossigeno — tante volte si è ridotta a una supplica biascicata: «Quando vieni?», «Portami via, diglielo al dottore che posso venire con te», «Non ce la faccio più». E allora fai promesse, gli ripeti che torni presto e lo porti a casa, che deve solo resistere ancora un po’. Poche parole, poi un saluto veloce, prima che si accorga di quanto sei triste.
Chiunque abbia avuto genitori anziani o nonni in gravi difficoltà psicofisiche lo sa e lo sapeva anche prima del Covid: non sono più genitori o nonni, diventano bambini. Da rassicurare, da guidare, da aiutare perché attraversino il guado. E allora davanti a quei vecchi-bambini conta molto — moltissimo — la famiglia che hanno cresciuto e il modo in cui l’hanno cresciuta. Conta esserci, ciascuno a proprio modo e con le proprie forze.
Ma la maledizione di questo virus consiste proprio in questo: nella negazione dell’esserci. E chissà se arriva, il bene che vogliamo, attraverso le nostre facce sorridenti e le parole affidate alle videochiamate...
Pensavo l’altro giorno a un’infermiera conosciuta per lavoro. Si chiama Marina. Ci vorrebbero 10-100-1000 Marine per far arrivare carezze e stringere le mani di malati soli, giovani o vecchi che siano. Di lei ho raccontato che avrebbe potuto andarsene e invece è rimasta fino alla fine accanto a una signora di 89 anni che stava morendo. L’ha accarezzata, le ha sistemato le ciocche dei capelli bianchi, le ha tenuto la mano. Amorevole fino all’ultimo. Qualche giorno dopo aver letto il racconto la figlia della signora ha voluto conoscerla. La cosa incredibile è che anche lei si chiama Marina, che anche lei le sistemava sempre le ciocche dei capelli.
L’infermiera, mai conosciuta di persona, è diventata un’amica in questi mesi. «Vuoi trasferire tuo padre a Milano? Sto io in ambulanza con lui. Ti organizzo il viaggio e te lo coccolo io» mi ha detto più volte.
Mai come in questo anno, o quasi, di pandemia ho incrociato persone illuminate dalla luce preziosa dell’umanità, della dedizione e della delicatezza.
Nei giorni in cui mio padre camminava pericolosamente sul filo della vita (nell’ospedale di Cosenza) il pensiero, ossessivo, era sempre lo stesso: capirà che non lo abbiamo abbandonato? Ricorderà che non possiamo andare a trovarlo? L’unica era ripeterlo ogni volta: «Papà non ci fanno entrare, non possiamo venire, ma siamo qui tutti ad aspettarti».
Così fino alla chiamata successiva, fino al prossimo gesto amorevole di Rosina, l’infermiera che rendeva possibile quel contatto.
Adesso lo scenario è cambiato e nella sua nuova residenza forzata le videochiamate sono quotidiane ed è addirittura possibile parlarsi separati da un vetro. Non sarà mai come una carezza ma è già molto.
Le conseguenze del virus sono ancora «importanti», come spiegano i medici. «Gli manca l’energia per far funzionare la fisiologia di base» mi ha detto uno di loro. Significa che deve reimparare a nutrirsi, soprattutto, dopo 46 giorni di cibo in vena e sei di sondino nasogastrico. Deve ricominciare a muoversi, a mettersi in piedi e a camminare, con ore e ore di fisioterapia. Deve riprendere a respirare senza l’aiuto dell’ossigeno. Deve recuperare linfa vitale, come fanno i fiori quando gli dai l’acqua e rialzano la testa. Nessuno può giurare che ce la farà e in ogni caso ci vorrà tempo, pazienza e tenacia per attraversare questa lunga notte dei suoi 81 anni.
Penso a chi non ha avuto scampo ed è diventato un numero nella contabilità quotidiana dei morti. Uomini e donne che non raramente avevano 20 anni di meno, se non più, degli 81 di mio padre. A volte se ne sono andate coppie. Mi torna in mente una storia che racconta tutta la potenza delle emozioni. Lui si chiamava Romano, 81 anni, lei Emilia, 77. Lei è morta poco dopo di lui e quando se n’è andata i loro figli hanno pubblicato sul Corriere un necrologio per conto del padre che non c’era più: «Ciao Emilia, amore mio. Abbiamo camminato insieme per una vita, uno di fianco all’altra. Adesso siamo in pace e insieme per sempre».
Penso alle famiglie di chi non c’è più. Il giorno dei 993 morti Gian Luca, il figlio di una delle vittime, scriveva in un tweet: «Ieri mio padre è stato uno dei 993 abitanti del paesino che il Covid si è portato via». Non ci avevo mai pensato, ogni giorno un paesino...
E poi penso a chi sottovaluta, nega, sminuisce. A chi «muoiono solo i vecchi» o «però avevano altre patologie».
Mio padre è vecchio, sì, e ha un’altra patologia, come migliaia di altri anziani in questo Paese. Ma quelle due parole — vecchio e malato — non autorizzano nessuno a pensare che le loro vite siano sacrificabili.
L a sua voce, deformata dagli alti flussi dell’ossigeno, tante volte si è ridotta ad una supplica biascicata: «Non ce la faccio più Portami via, dì al dottore che posso venire con te»
La maledizione del Covid è proprio questa: la negazione dell’esserci. E chissà se arriva, il bene che vogliamo, attraverso le nostre facce sorridenti e le parole affidate alle videochiamate