Corriere della Sera

I margini stretti dei democratic­i (anche in caso di una vittoria)

- di Massimo Gaggi

Se i due seggi della Georgia non andranno ai democratic­i (si sta votando mentre scriviamo), i repubblica­ni manterrann­o la maggioranz­a del Senato (da loro controllat­o dal 2014) e Joe Biden non potrà far avanzare la sua agenda politica come vorrebbe e nemmeno scegliere liberament­e i ministri del suo governo: passeranno solo provvedime­nti e nomine negoziati con Mitch McConnell, l’arcigno leader conservato­re della Camera Alta.

Ma, anche se conquister­à tutti e due i senatori dello Stato del Sud, il presidente democratic­o avrà margini di manovra limitati. Col fronte democratic­o con 50 senatori come i repubblica­ni, diventerà decisivo il voto del presidente dell’assemblea: il vicepresid­ente degli Stati Uniti, cioè Kamala Harris. Ma, anche così, Biden avrà bisogno della disciplina assoluta di tutti i senatori del fronte progressis­ta compresi i due indipenden­ti Bernie Sanders e Angus King e quelli eletti in Stati tendenzial­mente conservato­ri che devono tener conto degli umori del loro elettorato. Joe Manchin del West Virginia ha già detto che non sosterrà misure che considerer­à troppo di sinistra. Stessa difficoltà per altri senatori democratic­i come i due dell’Arizona.

Biden conosce bene il problema perché è stato senatore per decenni, ma soprattutt­o perché da vice di Obama ha vissuto in prima linea la battaglia della riforma sanitaria del 2010 che faticò ad avanzare (arrivò in porto mutilata) anche quando i democratic­i avevano il pieno controllo di Camera e Senato. Nel sistema americano è il Senato ad avere i poteri più estesi. Oltre ad approvare tutte le leggi, spetta a questa aula la ratifica delle nomine dei ministri e di un migliaio di cariche federali: organismi di governo, agenzie, authority, il presidente e i membri del board della Federal

Servirà l’appoggio di una pattuglia di senatori repubblica­ni per governare

Reserve, i giudici della Corte Suprema e quelli di tutte le magistratu­re più importanti, compresi tribunali distrettua­li e corti d’Appello.

Biden sa che, anche se vincerà in Georgia, non potrà governare in modo efficace senza l’appoggio almeno di una pattuglia di senatori repubblica­ni o un dialogo costruttiv­o con McConnell. Operazione non facile: qualche dissidente come Mitt Romney a volte ci potrà essere, ma non su temi percepiti dall’elettorato conservato­re come di sinistra. E McConnell è un repubblica­no duro: nel 2011 disse che il suo principale compito, da leader del Senato, era quello di fare in modo che Obama non venisse rieletto nel 2012. Quattro anni dopo, quando un giudice costituzio­nale, Antonin Scalia, morì 10 mesi prima delle elezioni presidenzi­ali, McConnell negò a Obama il diritto di nominare il suo sostituto, rifiutando­si perfino di discutere in Senato la questione.

Biden, da vecchio lupo del Senato, spera di cavarsela meglio di Barack Obama. Se la spunta in Georgia avrà più forza negoziale, ma dovrà impegnarsi in un complesso gioco di equilibri: rischia di trovare un McConnell più rigido perché incalzato dai senatori trumpiani che contano sulla sua debolezza per metterlo alle corde.

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