E Google «scoprì» il sindacato
Fondato da sette «pionieri», con poteri limitati Però potrebbe diventare un esempio per altre aziende Ha solo 400 iscritti ma è una novità (quasi) assoluta per la Silicon Valley, che si è sempre opposta alle «union»
Il numero degli iscritti (quelli iniziali sono circa 400 sui quasi 250 mila dipendenti diretti e indiretti di Google) sembra insignificante e la nuova organizzazione, la Alphabet Workers Union, sarà un sindacato minoritario che non potrà (né vorrà) negoziare contratti collettivi di lavoro. Eppure la nascita di questa piccola organizzazione sindacale nel cuore della Silicon Valley dopo un anno di lavoro clandestino può essere una svolta storica per la rappresentanza dei lavoratori del mondo della tecnologia: non puntando a reclutare la maggioranza degli addetti avrà poteri ma anche vincoli limitati e potrebbe, quindi, diffondersi più facilmente in altre aziende come Amazon e attirare anche lavoratori esterni, oggi non rappresentati perché, pur lavorando in Google, dipendono da un appaltatore.
Le aziende di big tech hanno sempre osteggiato con successo la sindacalizzazione della loro forza lavoro: i dipendenti diretti (soprattutto ingegneri, manager e computer scientist), sono ben pagati e, se insoddisfatti, trovano facilmente lavoro altrove; quelli pagati meno che svolgono mansioni più modeste (sicurezza, manutenzione, ristorazione, trasporti ma anche scrittura dei codici) dipendono da contractor esterni. Non possono, quindi, chiedere nulla al loro vero datore di lavoro.
Da tempo, però, le cose stanno cambiando: le campagne di stampa hanno costretto Facebook, Google e altre aziende del settore a chiedere ai contractor di pagare di più i loro dipendenti per limitare i danni d’immagine. Ma anche i dipendenti diretti, i più qualificati, hanno cominciato a protestare per casi di discriminazioni etniche o nei confronti delle donne. Poi sono arrivate le contestazioni di scelte aziendali considerate non etiche come la fornitura di tecnologie avanzate per la cattura di immigrati clandestini o per il perfezionamento di dispositivi militari del Pentagono.
Lo spiega con parole semplici Auni Ahsan, un software engineer di Google-Alphabet che ha aderito al nuovo sindacato creato nel gruppo: «Sono contento dello stipendio e degli altri benefit che mi dà l’azienda, ma non del fatto che il mio lavoro non aiuta il mondo e, anzi, produce oppressione». È il celebre motto dei fondatori di Google, «Don’t Be Evil», che ora si ritorce contro l’azienda (che, peraltro, l’ha cancellato da anni dal suo logo).
Fin qui i tentativi di costruire sindacati hanno prodotto scarsi risultati: ne sono nati di piccoli in Kickstarter, Glitch e in alcuni depositi di Amazon. Anche in Google e Facebook, ma solo per le guardie giurate della sicurezza interna. 80 dipendenti di Google a Pittsburgh nel 2019 hanno creato una union, ma l’azienda ha subito trasferito i compiti di quell’ufficio in Polonia decimando i lavoratori «ribelli».
Google si oppone con decisione ai nuovi sindacati (ha anche assunto una società di consulenza, IRI Consultants, specializzata, come dichiara lei stessa, nella ricerca delle «vulnerabilità delle organizzazioni dei lavoratori». Google è, però, anche la società che ha tentato più a lungo di mantenere un dialogo coi dipendenti sulle scelte aziendali sperimentando la figura di un «garante etico» — Tristan Harris — ma l’esperimento è fallito e lui è ben presto uscito dal gruppo diventandone un critico implacabile — e che ha subito la più clamorosa protesta mai registrata nel mondo della tecnologia: il walk out di 20 mila dipendenti che due anni fa contestarono simultaneamente in tutto il mondo lo scarso impegno dell’azienda nel perseguire casi di molestie e violenze sessuali.
Altre proteste di migliaia di ingegneri hanno poi spinto il gruppo a rinunciare alle forniture di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale ai militari. Poco dopo, però, alcuni dipendenti diventati attivisti sono stati licenziati in quella che molti, in Google, hanno considerato una rappresaglia.