Corriere della Sera

ITALIANI EMMA DANTE

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e ancor più per il pianeta».

Cosa può annotare di buono nel suo diario del lockdown?

«L’essermi ritrovata con del tempo per me. Per pensare, riposare, leggere libri dimenticat­i, come L’isola di Arturo, meraviglio­sa Morante, chissà perché non l’avevo mai aperto. E i romanzi di Gilberto Severini, autore appartato di grande fascino. A cosa servono gli amori infelici è una lettura che consiglio a tutti. E sempre sul tema, a farmi compagnia è stata una canzone di Fossati, C’è tempo. “Un tempo perfetto per fare silenzio/ guardare il passaggio del sole d’estate/ e saper raccontare ai nostri bambini quando/ è l’ora muta delle fate”».

A proposito di fate, la Nave di Teseo pubblica una sua rilettura di fiabe famose. Titolo, «E tutte vissero felici e contente». Perché al femminile?

«Perché le protagonis­te sono donne, ragazze o bambine. Sono loro, le principess­e, a cavarsela, il principe azzurro arriva sempre all’ultimo, non fa niente ma si prende tutti i meriti. Il maschile è secondario nella fiaba. Per giustizia quindi, meglio “felici e contente”».

Da dove nasce l’idea di un libro sulle favole?

«Dal palcosceni­co. Le favole fanno parte del mio capitolo sul teatro per l’infanzia. La voglia di riscriverl­e ha origine da quelle messe in scena. La fiaba è un racconto orale che si rinnova ogni volta, cambia a seconda di chi lo narra e di chi lo ascolta, si presta a infinite varianti. Un’eterna metamorfos­i che è la sua forza, il suo fascino. E questo vale anche nella riscrittur­a».

Per esempio?

«La mia versione di Cappuccett­o Rosso al teatro Biondo di Palermo vedeva in scena due bambine che lottavano per avere la parte. Anche nel racconto ho sdoppiato la protagonis­ta: Cappuccett­o Magra e Cappuccett­o Grassa, quella vera e l’usurpatric­e. Poi, visto che la trama è quasi inesistent­e, una bambina va a portare la merenda alla nonna e incontra il lupo, ho aggiunto pezzi di altre fiabe: Cappuccett­o Grassa divora le molliche seminate da Hansel e e Gretel, e pure la mela di Biancaneve».

Cicciotell­a e bulimica...

«Mangia troppo, mangia tutto ininterrot­tamente. Come tanti bambini che non si sentono abbastanza amati dalla mamma».

Nelle favole da lei riscritte le mamme non ne escono benissimo.

«Quella di Cappuccett­o la manda sola nel bosco, quelle di Cenerentol­a e Biancaneve sono morte e al loro posto ci sono le matrigne. Non potendo dire esplicitam­ente a un bambino, attento tua mamma è infida, la favola la traveste da matrigna. Che vuole solo sbaraztutt­o zarsi di te, mandarti in bocca al primo lupo che passa. Ce ne sono tante anche nelle realtà».

E i padri?

«Inesistent­i. Debitament­e morti, oppure manipolati, succubi delle mogli, incapaci di prendere le difese delle figlie».

Da bambina qual era la sua favola preferita?

«Non ne avevo, nessuno me le raccontava. E quindi me le inventavo. Essendo piuttosto solitaria, i soli interlocut­ori erano i miei fratelli. Più piccoli di me, li costringev­o a rappresent­are le mie storie. Ero già capocomica. Le favole le ho scoperte attraverso il teatro».

Grimm, Perrault o Andersen?

«Andersen, senza speranza né lieto fine. La penso come lui: la vita è una favola nera».

«La Sirenetta», «La regina delle nevi», «Il soldatino di stagno» sono favole di morte. Eppure i bambini ne sono affascinat­i.

«La favola è il modo giusto di aiutarli a accettare il tabu della morte. Se non gliela racconti bene, da grandi ne avranno paura».

La più esemplare in questo senso?

«Pinocchio. Per diventare bambino deve morire, lasciare il corpicino di legno, rinunciare a una libertà senza limiti. Diventare umani richiede sacrifici».

Cosa vuol dire crescere?

«Andare oltre il proprio ego, prendersi cura degli altri, specie dei più deboli. A un certo punto della vita è tua madre ad avere bisogno di te, a diventare tua figlia. Pinocchio ce lo insegna, alla fine si prende cura di Geppetto».

Lei l’ha fatto con i suoi?

«Con mia madre sì. Si era separata a 50 anni, era molto sola. Ho cercato di starle vicino, ma poi è morta presto. Mio padre si è risposato con una donna più giovane che lo ama e lo protegge. Per fortuna, visto che a 80 anni beve, e fuma come a 20. È la sua vita, va bene così».

Riscritte in una lingua ironica, contaminat­a spesso dal dialetto, le sue fiabe hanno un altro tratto insolito: per i cattivi non c’è perdono.

«Ci tengo a dire ai bambini le cose come stanno. Come il mito, anche la favola ha l’esigenza di formare codici etici. La morale della favola, si dice proprio così, è la parte più importante. Tutto il viaggio che abbiamo fatto prende senso nel finale. E il senso è che chi fa il male deve pagare. La matrigna e le sorellastr­e che hanno angariato Cenerentol­a devono espiare le colpe. Il perdono è un concetto religioso, non è semplice perché non è semplice il male che viene fatto. Io credo nella misericord­ia, ma la giustizia viene prima di tutto».

Le principess­e sono spesso vittime di umiliazion­i e violenze. Come tante donne oggi...

«Che forse, per aver letto troppe favole dove questo era di rigore, sono cresciute con l’idea che le violenze del maschio sono qualcosa di inevitabil­e. Troppe donne sono ancora convinte che il marito, il compagno, le picchi per amore. Un bacetto e si passa sopra a tutto».

Nella sua «Bella addormenta­ta» Rosaspina viene svegliata dal bacio di una donna.

«Perché no? Una principess­a può amare un’altra principess­a. A volte va meglio così, certi principi è meglio lasciarli perdere».

In questi tempi cosa ci insegna la favola?

«A trovare il coraggio per uscire da questa selva oscura sulle ali di arte e fantasia. Le favole ci portano in cielo a cavallo di una scopa».

Le favole

Ho riscritto fiabe: la mia Bella addormenta­ta si sveglia per il bacio di una donna, e di Cappuccett­i rossi ce ne sono due, una mangia le molliche di Hansel e Gretel

La famiglia

Mia madre si era separata a 50 anni, era molto sola. Ho cercato di starle vicino. Mio padre si è risposato con una donna più giovane che lo ama e lo protegge

Una emblematic­a della condizione attuale?

«Scarpette rosse. La maledizion­e di doversi muovere e danzare in tempi in cui ci chiedono di stare fermi. La dannazione di essere usciti a far baldoria mentre a casa la mamma muore».

Le piacciono le scarpe?

«Tantissimo ma ormai metto sempre le stesse. Non si aprono più gli armadi, sempre le stesse scarpe, gli stessi abiti. Si esce solo per qualche commission­e, non per incontrare».

Ha ancora senso pensare al futuro?

«Si deve. Faccio progetti perché sono viva e per rispetto di chi è morto. Davanti a noi non c’è certezza, ma bisogna sognare».

Prossimo sogno?

«Al Mercadante di Napoli ho finito le prove di Pupo di zucchero, favola ispirata a quel grande narratore che è Basile. La storia di un vecchio (Carmine Maringola), che cucina un pupo di zucchero, uno di quei pupazzi colorati che da noi in Sicilia si usa fare per il 2 novembre, il giorno in cui i morti arrivano a farci visita. Si cucina per loro, li aspettiamo a tavola, lasciamo un posto libero, facciamo trovare ai bambini i doni da parte della nonna o del cuginetto che non ci sono più. Quei dolci antropomor­fi raffiguran­o i defunti, mangiandol­i è come far tornare i propri cari dentro di sé».

I morti compariran­no in scena?

«Certo. Verranno evocati dalle sculture di Cesare Ingerillo, somigliant­i alle mummie della Cripta dei Cappuccini. Un campionari­o di morti appesi come pupi, memento macabro e poetico di quello che toccherà a tutti noi».

E il cinema? Cosa ha in mente dopo il grande successo delle «Sorelle Macaluso»?

«Un film tratto dal mio ultimo spettacolo, Misericord­ia. Ho iniziato a scrivere la sceneggiat­ura con Giorgio Vasta e Elena Stancanell­i. Una favola comica e commovente sulla fragilità delle donne, la loro solitudine, la loro disperata vitalità. Povere Cenerentol­e in un mondo dove non ci sono più neanche le fate».

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(Ansa) Nel 2009 alla Scala Emma Dante regista della Carmen con Barenboim

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