Elzeviro
I versi di Alberto Fraccacreta IL PRIGIONIERO SOGNA ALL’INFINITO
Ci sono poeti e poeti: quelli che cercano «un paese/ innocente», come il primo Ungaretti, quasi elidendo tutto il già detto, in cerca di una parola che suoni pura e assoluta; e quelli che, per ritrovare il filo della rivelazione, il lampo della purezza originaria, attraversano l’intrico dei segni, delle letterature, delle storie, quasi giocando un’infinita partita di rimandi. Appartiene a questa seconda categoria Alberto Fraccacreta, la cui ancor giovane età (è nato a Foggia nel 1989, vive a Urbino) non fa velo a un’abilità combinatoria e nominalistica da consumato artigiano della parola. Fin qui due erano le raccolte date alle stampe: Uscire dalle mura (2012) e Basso Impero (2016). Nel riunirle e riordinarle, con l’aggiunta di inediti, l’autore mostra l’intento di costruire un canzoniere a chiave, eppure ancora enigmatico, cioè aperto. Il titolo che lo fregia (Sine macula. Poesie 2007-2019, Transeuropa, pagine 224, 20) non è privo di indicazioni segnaletiche per il lettore che si perda tra i dedali di questo labirinto verbale.
Di che cosa si tratta? Il poeta muove da un desiderio di integrità. Vuole dunque attraversare il caos della modernità e (perché no?) della postmodernità guidato da un filo rosso, da una tenace fede nelle apparizioni, come indizi di una più piena e non insidiata condizione iniziale. Si direbbe che lo spunto sia costituito da suggestioni risalenti a Montale: «[...] L’attesa è lunga,/ il mio sogno di te non è finito» (da Il sogno del prigioniero) risuona in varie riscritture, fino a questa, da Uscire dalle mura: «La mia attesa di te è/ ab aeterno in aeternum». Memore di Clizia, Fraccacreta ricorre a sua volta a un senhal e chiama Delia la creatura illesa che sta al centro delle sue epifanie. Delia è colei che è sempre sul punto di mostrarsi, che sta per apparire, e non è tanto portatrice, come Clizia, di attributi cristici, ma è la stessa pulsazione dell’innocenza, è la stessa maternità del mondo, svelando in sé lo stigma di Maria madre del Salvatore. In lei le cose presenti e le perdute si riconciliano, in lei il vivente di ogni epoca è custodito e risorge.
Si badi che non c’è irenismo, ma piuttosto discesa nell’intrico del reale e dell’immaginario in direzione di una scaturigine. Così ad esempio Fraccacreta, nella sua abilità mimetica ed espressiva, dice tempi ed epoche lontane, che fanno perno nella città rinascimentale di Urbino. Dice la cultura che cresce sulla cultura (poesia e pittura, letteratura e filosofia), senza dimenticare l’assillo di un pungente desiderio di totalità. Visibile e invisibile si presentano in lui con la stessa evidenza, come se l’attesa montaliana del miracolo fosse, in certo modo, già compiuta. Il poeta rifugge però da soluzioni semplicistiche: il mondo presente, con il suo continuo debordare verso l’eccesso e l’abbagliamento, va compreso nella parola poetica.
Essa, infine, fissa il mistero della pura presenza, cercando di sfondarla in direzione di una confidenza più piena e ultima con le cose create. Così il merlo, in Basso Impero, condensa la nostalgia di una comprensione autentica della natura: «Pensa a non pensare, permane nell’animalità fissa./ Non conosce il piacere di essere merlo». Intanto, in tal modo, da Montale siamo scivolati a Luzi, non senza passare per modelli di poesia europea cari all’autore, come il polacco Adam Zagajewski. La nominazione e il desiderio si congiungono nell’adesione, pur sempre dolorante, a un creato proteso alla sua apocalisse: «Tutto è a repentaglio, oggi,/ tutto è già stato redento».