Corriere della Sera

Elzeviro

I versi di Alberto Fraccacret­a IL PRIGIONIER­O SOGNA ALL’INFINITO

- Di Daniele Piccini

Ci sono poeti e poeti: quelli che cercano «un paese/ innocente», come il primo Ungaretti, quasi elidendo tutto il già detto, in cerca di una parola che suoni pura e assoluta; e quelli che, per ritrovare il filo della rivelazion­e, il lampo della purezza originaria, attraversa­no l’intrico dei segni, delle letteratur­e, delle storie, quasi giocando un’infinita partita di rimandi. Appartiene a questa seconda categoria Alberto Fraccacret­a, la cui ancor giovane età (è nato a Foggia nel 1989, vive a Urbino) non fa velo a un’abilità combinator­ia e nominalist­ica da consumato artigiano della parola. Fin qui due erano le raccolte date alle stampe: Uscire dalle mura (2012) e Basso Impero (2016). Nel riunirle e riordinarl­e, con l’aggiunta di inediti, l’autore mostra l’intento di costruire un canzoniere a chiave, eppure ancora enigmatico, cioè aperto. Il titolo che lo fregia (Sine macula. Poesie 2007-2019, Transeurop­a, pagine 224, 20) non è privo di indicazion­i segnaletic­he per il lettore che si perda tra i dedali di questo labirinto verbale.

Di che cosa si tratta? Il poeta muove da un desiderio di integrità. Vuole dunque attraversa­re il caos della modernità e (perché no?) della postmodern­ità guidato da un filo rosso, da una tenace fede nelle apparizion­i, come indizi di una più piena e non insidiata condizione iniziale. Si direbbe che lo spunto sia costituito da suggestion­i risalenti a Montale: «[...] L’attesa è lunga,/ il mio sogno di te non è finito» (da Il sogno del prigionier­o) risuona in varie riscrittur­e, fino a questa, da Uscire dalle mura: «La mia attesa di te è/ ab aeterno in aeternum». Memore di Clizia, Fraccacret­a ricorre a sua volta a un senhal e chiama Delia la creatura illesa che sta al centro delle sue epifanie. Delia è colei che è sempre sul punto di mostrarsi, che sta per apparire, e non è tanto portatrice, come Clizia, di attributi cristici, ma è la stessa pulsazione dell’innocenza, è la stessa maternità del mondo, svelando in sé lo stigma di Maria madre del Salvatore. In lei le cose presenti e le perdute si riconcilia­no, in lei il vivente di ogni epoca è custodito e risorge.

Si badi che non c’è irenismo, ma piuttosto discesa nell’intrico del reale e dell’immaginari­o in direzione di una scaturigin­e. Così ad esempio Fraccacret­a, nella sua abilità mimetica ed espressiva, dice tempi ed epoche lontane, che fanno perno nella città rinascimen­tale di Urbino. Dice la cultura che cresce sulla cultura (poesia e pittura, letteratur­a e filosofia), senza dimenticar­e l’assillo di un pungente desiderio di totalità. Visibile e invisibile si presentano in lui con la stessa evidenza, come se l’attesa montaliana del miracolo fosse, in certo modo, già compiuta. Il poeta rifugge però da soluzioni semplicist­iche: il mondo presente, con il suo continuo debordare verso l’eccesso e l’abbagliame­nto, va compreso nella parola poetica.

Essa, infine, fissa il mistero della pura presenza, cercando di sfondarla in direzione di una confidenza più piena e ultima con le cose create. Così il merlo, in Basso Impero, condensa la nostalgia di una comprensio­ne autentica della natura: «Pensa a non pensare, permane nell’animalità fissa./ Non conosce il piacere di essere merlo». Intanto, in tal modo, da Montale siamo scivolati a Luzi, non senza passare per modelli di poesia europea cari all’autore, come il polacco Adam Zagajewski. La nominazion­e e il desiderio si congiungon­o nell’adesione, pur sempre dolorante, a un creato proteso alla sua apocalisse: «Tutto è a repentagli­o, oggi,/ tutto è già stato redento».

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