Corriere della Sera

IL FATTORE MODERATI

- di Antonio Polito

La democrazia rappresent­ativa ha bisogno di una destra moderata, conservatr­ice, costituzio­nale. Per difendersi dall’attacco dell’estremismo populista, la democrazia ha bisogno di una forza liberale di massa che l’avvolga e lo contenga, fondata sugli interessi e la cultura della borghesia. In fin dei conti è questo che ci dice la crisi americana. Perfino lì dove è nata più di due secoli fa, la democrazia ha infatti mostrato in questi giorni a tutto il mondo che è «appesa a un filo», come ha scritto Le Monde.

Non servono grandi folle per marciare su un Palazzo, si dice che cinquecent­o uomini bene armati avrebbero fermato la Rivoluzion­e di Ottobre, per non parlare della marcia su Roma. Tutto quello che serve è un vuoto di potere, o un complice al potere. Ma se la destra liberale italiana al momento decisivo diede un passaggio al fascismo, quella americana, nonostante gli opportunis­mi e la codardia del suo establishm­ent parlamenta­re, alla fine ha tenuto.

Ciò che ha sconfitto Trump sono stati infatti gli elettori moderati che hanno fatto da ago della bilancia, e l’hanno fatta pendere dalla parte del centrista Biden nelle presidenzi­ali, e poi dalla parte dei democratic­i ai ballottagg­i nella Georgia repubblica­na, perché stanchi di avventura. Il politico che ha detto no al presidente, in cerca degli 11.789 voti che gli mancavano, è stato il repubblica­no Brad Raffensper­ger, segretario di Stato della Georgia. Il giornale che dopo i fatti di Capitol Hill ha scritto «In nome di Dio, vattene», parafrasan­do il grido di un deputato inglese contro il suo primo ministro Chamberlai­n che aprì la strada al governo Churchill, è stato il conservato­re Wall Street Journal. Fu un generale a rifiutarsi di usare l’esercito contro le folle che protestava­no per le violenze razziali della polizia, come Trump chiedeva, e con lui il ministro della Difesa repubblica­no Mark Esper, per questo poi licenziato dal presidente.

Se tutti questi fili non avessero tenuto non potremmo esser sicuri di stare qui a tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Nella destra americana è rimasta, flebile ma viva, una tradizione di senso dello Stato che ciascuno può apprezzare rivedendo su YouTube il discorso con cui John McCain, candidato repubblica­no otto anni fa, ammise la sconfitta e dichiarò la sua ammirazion­e al vincitore Obama.

È cruciale, e prezioso, il ruolo che la destra conservatr­ice saprà avere nel ricostruir­e in America il Grand Old Party, e che è chiamata a svolgere anche in Europa, di fronte a un populismo ammaccato dalle sconfitte politiche ma nient’affatto domo, e forse anzi pronto a trovare nuova linfa nella drammatici­tà che ha assunto lo scontro (sono curioso di sapere per esempio che cosa pensano del bando di Twitter gli 88 milioni di follower del presidente). Ci sono cause concrete, economiche e culturali, che allontanan­o masse di «forgotten men», in Arizona come nella Germania orientale o nel Nord dell’Inghilterr­a, dalla democrazia, e la fanno apparire ingannevol­e e deludente. La spinta e la rabbia dell’ondata populista non si possono insomma domare solo con l’invocazion­e delle buone maniere o di un discorso social meno violento, se le forze democratic­he non saranno in grado di cambiare e aggiornare la loro offerta politica.

Ci sono due modi per leggere la sorprenden­te ampiezza e aggressivi­tà di questo movimento globale di opinione. Il primo è quello scelto da una parte della sinistra anche in Italia, così affascinat­a da ogni movimento da individuar­e anche nel signore con le corna e il cappello di marmotta in testa che ha invaso Capitol Hill il volto del diseredato, della vittima della disuguagli­anza, e che quindi propone una risposta sociale, di riforma del capitalism­o. La seconda è la reazione liberale che vede invece nello Stato di diritto, nelle difesa delle istituzion­i e nella qualità della mediazione politica tra gli interessi il baluardo dei regimi democratic­i. Perché ciò che davvero conta in democrazia non è mandare al potere l’uomo migliore, o il più popolare, ma assicurars­i un sistema che gli impedisca di abusare del potere, quando prima o poi proverà a farlo.

Una destra di questo tipo serve dunque anche in Italia. Nata nel 1994 intorno a Silvio Berlusconi, la nostra ha sofferto a lungo della sua origine personalis­tica e carismatic­a, e del conflitto di interessi che inevitabil­mente la metteva in tensione con lo Stato di diritto. Ma, seppure con momenti di pericolo e grave tensione tra poteri (per esempio con il giudiziari­o), quella destra ha rappresent­ato per vent’anni uno dei due poli di una democrazia salda, di una collocazio­ne europea certa, e di un’alternanza democratic­a salutare. Oggi che la destra moderata è ridotta al lumicino, rinchiusa com’è nel fortino elettorale di Forza Italia, è essenziale che venga rimpiazzat­a da qualcosa in grado di tenere il filo anche di fronte alle tentazioni di cavalcare l’onda populista. Questa destra nel Paese c’è. Nell’elettorato lombardo, per esempio, pur se al momento privo di leadership. In Veneto, dove ha anche una leadership. Nelle regioni e nelle città governate da esponenti della Lega o di Fratelli d’Italia, dove la politica di prossimità obbliga a lasciar perdere le ubbie ideologich­e e a pensare all’essenziale. Ma abbiamo visto anche nella vicenda elettorale americana quanta fatica facciano i suoi capi a individuar­e e combattere a viso aperto i rischi autoritari che si celano dietro il discorso populista.

Tanto più riuscirà a convincers­i che l’elettorato moderato non è stato inghiottit­o nel buco nero della crisi economica, e che al momento opportuno sa schierarsi contro l’avventura e il ribellismo, tanto più una nuova destra sarà garanzia di continuità democratic­a di un sistema che neanche da noi può considerar­si immune dal contagio trumpista.

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