GLI IDEALI DISMESSI
Identità Le forze in campo si aggrappano a temi di passaggio, che sollecitano i sentimenti più immediati della popolazione, incuranti delle contraddizioni
Le istituzioni sono sottoposte a una dura prova dal protrarsi della pandemia, dalle misure draconiane necessarie per fronteggiarle e dalle difficoltà di una vaccinazione di massa. Tutta l’attenzione è ora rivolta a queste azioni pubbliche, mentre scivolano fuori dall’agenda politica temi, presentatisi da qualche anno e accentuatisi nell’ultimo, che condizioneranno pesantemente il nostro domani.
Il leader di Italia viva ha dichiarato che il Piano di ripresa, nella versione di qualche giorno fa, è senz’anima.
Non ha tutti i torti, essendo una raccolta di progetti senza un chiaro obiettivo e disegno del nostro futuro. Questa assenza è segno di un vuoto che si è prodotto nella politica: la perdita dei fini. Sono scomparsi i programmi dei partiti come loro segni identificativi, come proposta da fare approvare all’elettorato e far diventare poi progetto per la ripresa. Le forze politiche, improvvisando, si aggrappano a temi di passaggio, che sollecitano i sentimenti più immediati della popolazione, con azioni simboliche, pronte a cambiare posizioni, noncuranti delle contraddizioni, sollecite nell’apparire e nel parlare, piuttosto che nel fare. Persino il presidente del Consiglio, senza batter ciglio, ha apposto la sua firma, nei due anni trascorsi, su provvedimenti tra loro in contrasto, il decreto legge Salvini su immigrazione e sicurezza e quello, di opposto contenuto, che Salvini ha combattuto. Nel 1964, Italo Calvino chiamò questo «il dismettersi degli ideali». Ogni politica è buona, purché ne sia sicura la popolarità in un certo momento. Destra e sinistra, conservatori e progressisti si confondono. La politica diviene oscura e viene sostituita dalle parole.
Secondo punto critico: sulle decisioni importanti, ormai, i due rami del Parlamento si dividono il lavoro, alternandosi: una volta uno approva e l’altro ratifica; la volta successiva avviene il contrario. Mentre il Parlamento perde quota come teatro della politica, le regioni assumono il ruolo di protagoniste, ma senza una sede nella quale esplicare questa funzione, che spesso è di decisori di ultima istanza. Allo Stato — Moloch si sostituisce lo Stato — arena dove protagonisti e co-protagonisti si affrontano. Queste due torsioni delle nostre istituzioni sembrano dare ragione a chi voleva abbandonare l’attuale bicameralismo e sostituire la seconda Camera con una rappresentanza delle regioni, in modo da dare loro una sede appropriata e farle diventare codecisori sulle questioni di interesse nazionale, invece che chiassosi contradditori istituzionali.
Terzo: l’antipolitica populista, rifiutando il governo della competenza, ha fatto calare il silenzio su quella parte del nostro sistema che chiamiamo autorità indipendenti. Erano lo strumento con il quale si assicurava la neutralità dell’azione statale nei settori «sensibili» (ad esempio, le comunicazioni, i trasporti, le fonti di energia, la tutela della vita privata). Sono entrate in un cono d’ombra. Suscitano insofferenza nella politica, o solo appetiti di posti.
Ha acquistato, invece, un ruolo tutto particolare la magistratura, sostituendosi al voto popolare: ieri da essa sono dipese le sorti del presidente della Regione Calabria e qualche giorno fa da una sua decisione si è fatta dipendere una candidatura a sindaco di Roma.
Da ultimo, la burocrazia è ogni giorno vituperata, anche da parte di chi ne ha le chiavi, ma è oggetto della più grande incuria (l’apposito centro di cura governativo è «sede vacante»). Per questo si assumono persone con la licenza elementare, inconsapevoli che solo un terzo degli attuali dipendenti pubblici ha il titolo di studi universitari (in Parlamento i laureati sono invece circa due terzi). Per questo si ignorano i più elementari criteri meritocratici nelle assunzioni e nelle promozioni, senza capire che questo vuol dire affidarsi alle clientele, ai partiti, alle caste, ai clan, ai legami familiari. Per questo è potuto passare sotto silenzio il clamoroso fallimento dello sciopero dei dipendenti pubblici proclamato e sostenuto dalle principali centrali sindacali.
Lo storico israeliano Yuval Harari, nel tracciare le vicende dell’uomo, ha ripreso un’idea già accennata in sede sociologica, quella che le istituzioni sono «ordini immaginari», nel senso di non reali, diretti ad assicurare il consenso mediante la cooperazione, per forgiare una società migliore e meno conflittuale. Le torsioni alle quali stiamo sottoponendo le istituzioni italiane sembrano, al contrario, dirette a produrre squilibri e conflitti, compensati in questi ultimi anni soltanto da una maturità sociale che ispira a cercare la forza di insistere e perseverare, sia pure con una «amara serenità» (sono sempre parole di Calvino).
I due rami del Parlamento
Si dividono il lavoro alternandosi, uno approva, l’altro ratifica. E la volta successiva il contrario
L’antipolitica populista
Rifiutando il governo della competenza ha fatto calare il silenzio sulle autorità indipendenti