«Ecco perché dobbiamo piegare il virus entro i prossimi 2 mesi»
Gli scienziati e la strategia per uscire dalla pandemia Galli: «Concentrare le vaccinazioni in 15 giorni di forti restrizioni» Salmaso: «Potenziare lo studio delle varianti, i vaccini sono adattabili»
Il virus è tornato a mordere e in questa fase ciò che pesa di più è l’incertezza. Una exit strategy precisa non c’è (e non potrebbe esserci): troppe le variabili in gioco, le opzioni possibili. Come la comparsa di nuove varianti, la campagna vaccinale che inizia a entrare nel vivo, la mancanza di farmaci efficaci. Per vedere i primi effetti di massa dei vaccini serviranno alcuni mesi: gli occhi sono puntati alla fine della primavera come possibile avvio dello sprint finale che ci porterà fuori dal dramma. Ma secondo diversi esperti è bene fissare uno step intermedio di verifica degli obiettivi raggiunti. «Se, idealmente a Pasqua (inizio aprile, ndr), avessimo vaccinato una buona parte della popolazione, assisteremmo probabilmente a una minor circolazione del virus — afferma Massimo Galli, primario di Malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano —. Nelle zone più colpite dalla prima ondata, come Lodi e Bergamo, i guariti sono stati tra il 20 e il 40%: questo ha frenato in parte il virus nella seconda ondata e le infezioni sono state meno che in altre aree. Con i vaccini dovrebbe accadere la stessa cosa. Per accelerare la campagna si potrebbe pensare a concentrare un numero elevato di somministrazioni in due o più settimane dedicate, in cui le altre attività vengano il più possibile limitate. Con il risultato di frenare la circolazione del virus e in parallelo alzare la percentuale degli immuni con il vaccino. Ma tanto dipende da quante dosi avremo e quando».
Le varianti
La lotta contro Sars-CoV-2 somiglia sempre più a una lunghissima partita a Risiko, in cui la strategia e il tempo hanno un ruolo fondamentale. Un gioco in cui possono spuntare in ogni momento variabili impreviste. Oggi le carte uscite dal cappello sono la «inglese» e la «sudafricana», due varianti ritenute estremamente contagiose, anche se non ci sono prove che possano provocare una malattia più grave. La variante «B.1.1.7» (scoperta in Gran Bretagna) è stata trovata in 43 Paesi e in Italia si contano una ventina di casi. L’altra, oltre che in Sudafrica, è stata registrata nei Paesi Bassi, Israele e Canada. In Brasile una donna si sarebbe infettata una seconda volta il 26 ottobre con il ceppo «501.V2» (sudafricano), dopo il primo contagio avvenuto a maggio. Il timore è che questa variante sia più «cattiva» e possa rendere difficile l’attivazione degli anticorpi. Per ora, però, non vi sono certezze al riguardo. Al contrario sappiamo che le nuove versioni del virus corrono più veloci ed ecco perché i contagi sono in aumento in molti Paesi. «Tutti i virus si modificano, sono state registrate migliaia di piccole mutazioni nell’intero genoma, la stragrande maggioranza delle quali irrilevante dal punto di vista della risposta anticorpale — sottolinea Carlo Federico Perno, direttore dell’Unità di Microbiologia all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma —. Sars-CoV-2 ha, al contrario di molti altri esponenti della sua famiglia (virus a Rna), un sistema interno di verifica e controllo per cui ha una capacità di mutazione limitata: questo lo rende incline ad essere bersaglio di vaccini. Il contrario di quanto accade con Hiv e virus dell’epatite C, che si modificano continuamente in modo sostanziale».
Gli antidoti
La comparsa delle ultime due varianti degne di interesse (prima c’erano state la famigerata D, la spagnola, quella identificata nei visoni danesi) ha portato la comunità scientifica a farsi alcune domande. Una su tutte: i vaccini sono efficaci sulle varianti come sul ceppo «originale» per cui sono stati creati? Siamo ancora nel campo delle ipotesi, ma gli studi sono in corso e presto si avranno i risultati. Diversi esperti hanno espresso una linea ottimista. «È altamente probabile che i vaccini
funzionino anche contro le varianti, perché la risposta anticorpale che provocano non è diretta contro singoli pezzi della proteina spike (dove sono state osservate le mutazioni, ndr), ma contro l’intera struttura della proteina stessa — afferma l’epidemiologa Stefania Salmaso, già direttrice del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità —. Peraltro i nuovi vaccini a base di Rna messaggero possono essere modificati con estrema facilità. Entro l’estate avremo dati sull’efficacia in ampie fasce di popolazione: se saranno positivi potremo concentrarci su una strategia di uscita dalla pandemia. Attenzione, non parliamo di eradicazione: la scomparsa del virus, se mai avverrà, richiederà moltissimo tempo. Il nostro obiettivo oggi è conviverci, rendendo i suoi effetti non letali. Non possiamo però contare solo sui vaccini: speriamo che possano arrivare farmaci efficaci per trattare chi si ammala in modo grave. Ed è necessario potenziare la capacità di sequenziamento, in Italia ancora largamente insufficiente: solo così potremo identificare eventuali nuove varianti e seguirne la diffusione».
Due mesi decisivi
«I prossimi due mesi vedranno in atto un braccio di ferro tra noi e il virus — aggiunge Massimo Galli —. Dobbiamo limitare il più possibile la sua diffusione, nella prospettiva che le vaccinazioni facciano salire la barriera tra lui e le persone suscettibili di infezione. A questo proposito, non è necessario vaccinare le persone guarite da Covid, che in Italia potrebbero essere circa 5 milioni. Mentre la decisione di distanziare le due dosi oltre le 3-4 settimane previste, per proteggere più persone, andrebbe presa solo in caso di assoluta necessità. Come resistere nelle prossime settimane, viste le avvisaglie di ripresa dell’epidemia? Mi auguro che ci sia ancora spazio per strategie mirate: negli ultimi mesi, metaforicamente parlando, abbiamo seguito diete disordinate per periodi insufficienti, per poi sbragare ai primi segnali favorevoli della bilancia. Bisogna trovare la quadra tra dieta stretta e mantenimento, e non è facile. Un nuovo lockdown totale, oltre a essere economicamente disastroso, rappresenterebbe anche l’ammissione di un fallimento. È un fatto però che chi sta epidemiologicamente peggio, in questo momento nel nostro Paese, è chi è stato più a lungo in giallo. Il virus si nutre col movimento e l’aggregazione delle persone. Per affrontarlo nel modo giusto serve comunque un cambio di rotta».