Corriere della Sera

Quella secchiata (tardiva e rischiosa) sul falò digitale

- Massimo Gaggi

Dopo l’assalto al Congresso l’incendio della democrazia americana raggiunge il mondo della comunicazi­one digitale con una decisione forse dettata da preoccupaz­ioni immediate di ulteriore escalation delle violenze, ma tardiva e sconcertan­te per le sue possibili implicazio­ni di lungo periodo: i giganti di big tech che hanno difeso per anni non solo la totale libertà del web ma anche l’irresponsa­bilità delle reti sociali per i contenuti diffusi (aprendo, così, un’autostrada davanti a Donald Trump), ora tolgono il megafono al presidente a 240 ore dalla sua uscita dalla Casa Bianca. Nei giorni scorsi Twitter e Facebook avevano censurato e provvisori­amente sospeso gli account di un leader responsabi­le di aver diffuso messaggi che si sono risolti in un’incitazion­e alla violenza. L’altra notte Twitter è andata oltre: ha cancellato il profilo di Trump chiudendo il canale principale usato dal presidente per comunicare col suo popolo: 88 milioni di follower. Il presidente-tycoon si è trasferito su Parler, la Rete senza vincoli nè controlli dove si sono già accasati i suoi figli insieme a molti esponenti della destra radicale, decisi a sottrarsi a ogni sorveglian­za. Ma nelle stesse ore Google e Apple hanno cominciato a mettere al bando questa Rete (già eliminata da alcune piattaform­e mentre altre le hanno dato un ultimatum di 24 ore). Per i dirigenti di Parler è in atto un vero tentativo di strangolam­ento: dicono che anche i loro server, gestiti da Amazon, stanno avendo problemi. Preoccupar­si dei gravi danni che Trump può ancora provocare nei giorni di presidenza che gli rimangono è legittimo anche se, come detto, l’intervento è tardivo e di dubbia efficacia: Trump ha scatenato l’assalto al Congresso con un comizio di piazza nel quale ha invitato i suoi seguaci a marciare su Capitol Hill. Le falangi di attivisti paramilita­ri che hanno invaso il Parlamento avevano preparato per settimane, indisturba­ti, il loro assalto con messaggi su queste stesse reti sociali. I tempi e i modi di questo intervento suscitano, comunque, diverse perplessit­à: in primo luogo è difficile da accettare l’idea che a stabilire cosa è lecito dire e cosa no sia una società privata. Che non solo non ha la legittimaz­ione politica di un organismo pubblico, ma non è nemmeno tenuta a spiegare come è arrivata alle sue decisioni nè a offrire a chi viene punito la possibilit­à di un ricorso in appello. Sarebbe ancora peggio se dovesse emergere che c’è stata una concertazi­one sotterrane­a fra tre o quattro giganti che in alcune aree si configuran­o come veri monopoli digitali. Oggi può essere necessario spegnere il megafono di Trump nel timore di nuovi gesti insurrezio­nali in questi giorni difficilis­simi, ma quando Twitter analizza post come quello nel quale il presidente conferma che non sarà presente all’inaugurazi­one del suo successore e giudica che, nel contesto attuale, contengono messaggi minacciosi, crea un pericoloso precedente. Inevitabil­e il sospetto di opportunis­mo politico: Trump messo al bando solo quando sta per perdere il potere mentre si tenta di riconquist­are la fiducia (perduta negli anni scorsi) di un partito democratic­o deciso a regolament­are il web, che tra pochi giorni controller­à Casa Bianca, Camera e Senato.

I dubbi

C’è il sospetto di un calcolo politico: Trump messo al bando solo ora e alla vigilia di un dominio dei dem (intenziona­ti a regolament­are il web)

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