Quella secchiata (tardiva e rischiosa) sul falò digitale
Dopo l’assalto al Congresso l’incendio della democrazia americana raggiunge il mondo della comunicazione digitale con una decisione forse dettata da preoccupazioni immediate di ulteriore escalation delle violenze, ma tardiva e sconcertante per le sue possibili implicazioni di lungo periodo: i giganti di big tech che hanno difeso per anni non solo la totale libertà del web ma anche l’irresponsabilità delle reti sociali per i contenuti diffusi (aprendo, così, un’autostrada davanti a Donald Trump), ora tolgono il megafono al presidente a 240 ore dalla sua uscita dalla Casa Bianca. Nei giorni scorsi Twitter e Facebook avevano censurato e provvisoriamente sospeso gli account di un leader responsabile di aver diffuso messaggi che si sono risolti in un’incitazione alla violenza. L’altra notte Twitter è andata oltre: ha cancellato il profilo di Trump chiudendo il canale principale usato dal presidente per comunicare col suo popolo: 88 milioni di follower. Il presidente-tycoon si è trasferito su Parler, la Rete senza vincoli nè controlli dove si sono già accasati i suoi figli insieme a molti esponenti della destra radicale, decisi a sottrarsi a ogni sorveglianza. Ma nelle stesse ore Google e Apple hanno cominciato a mettere al bando questa Rete (già eliminata da alcune piattaforme mentre altre le hanno dato un ultimatum di 24 ore). Per i dirigenti di Parler è in atto un vero tentativo di strangolamento: dicono che anche i loro server, gestiti da Amazon, stanno avendo problemi. Preoccuparsi dei gravi danni che Trump può ancora provocare nei giorni di presidenza che gli rimangono è legittimo anche se, come detto, l’intervento è tardivo e di dubbia efficacia: Trump ha scatenato l’assalto al Congresso con un comizio di piazza nel quale ha invitato i suoi seguaci a marciare su Capitol Hill. Le falangi di attivisti paramilitari che hanno invaso il Parlamento avevano preparato per settimane, indisturbati, il loro assalto con messaggi su queste stesse reti sociali. I tempi e i modi di questo intervento suscitano, comunque, diverse perplessità: in primo luogo è difficile da accettare l’idea che a stabilire cosa è lecito dire e cosa no sia una società privata. Che non solo non ha la legittimazione politica di un organismo pubblico, ma non è nemmeno tenuta a spiegare come è arrivata alle sue decisioni nè a offrire a chi viene punito la possibilità di un ricorso in appello. Sarebbe ancora peggio se dovesse emergere che c’è stata una concertazione sotterranea fra tre o quattro giganti che in alcune aree si configurano come veri monopoli digitali. Oggi può essere necessario spegnere il megafono di Trump nel timore di nuovi gesti insurrezionali in questi giorni difficilissimi, ma quando Twitter analizza post come quello nel quale il presidente conferma che non sarà presente all’inaugurazione del suo successore e giudica che, nel contesto attuale, contengono messaggi minacciosi, crea un pericoloso precedente. Inevitabile il sospetto di opportunismo politico: Trump messo al bando solo quando sta per perdere il potere mentre si tenta di riconquistare la fiducia (perduta negli anni scorsi) di un partito democratico deciso a regolamentare il web, che tra pochi giorni controllerà Casa Bianca, Camera e Senato.
I dubbi
C’è il sospetto di un calcolo politico: Trump messo al bando solo ora e alla vigilia di un dominio dei dem (intenzionati a regolamentare il web)