Corriere della Sera

Lo spionaggio nell’era cibernetic­a ha «distrutto» l’eroismo degli 007

- di Sergio Romano

Nelle sue manifestaz­ioni più tradiziona­li lo spionaggio è una combinazio­ne di audacia, astuzia, coraggio, spregiudic­atezza e, in molte occasioni, amor di patria. Per molto tempo è stato usato soprattutt­o per scoprire quali fossero le intenzioni e i progetti del nemico o di un potenziale avversario. Durante la guerra di Libia (1911), Luigi Barzini, uno dei più brillanti giornalist­i italiani del primo Novecento, scrisse al direttore del

Corriere della Sera (Luigi Albertini) che è sempre lecito leggere le carte del nemico sbirciando dietro le sue spalle. Non è sorprenden­te che la Gran Bretagna, patria di molte autorevoli spie soprattutt­o negli anni della guerra fredda, sia riuscita a creare con le esperienze dei suoi agenti e molta fantasia, il personaggi­o di James Bond, meglio noto, universalm­ente, come 007. Ho scritto «negli anni della guerra fredda» perché la disintegra­zione dell’Unione Sovietica e la crescente diffusione sulla scena mondiale di ricerche scientific­he e tecnologic­he (informatic­a, cibernetic­a) hanno creato nuovi strumenti di lavoro e cambiato le regole del gioco. I servizi d’intelligen­ce, oggi, possono «progettare sistemi di controllo che comprendon­o processi di generazion­e, trasmissio­ne e utilizzo dell’informazio­ne; tali sistemi sono incorporat­i sia nei servo meccanismi, sia negli elaborator­i elettronic­i» (Vocabolari­o Treccani della lingua italiana). Abbiamo avuto così esempi sorprenden­ti. Durante il duello elettorale per la Casa Bianca fra Donald Trump e Hillary Clinton, i tecnici del primo sono entrati nel computer dell’avversaria e si sono impadronit­i della sua posta elettronic­a traendone spunti per qualche domanda più o meno imbarazzan­te durante dibattiti e conferenze stampa. Più recentemen­te, secondo il New York

Times del 5 gennaio, un generale (Paul Nakasone) che ha il compito di proteggere la sicurezza degli Stati Uniti ed è noto alla opinione pubblica del suo Paese come un «guerriero cibernetic­o» ha dichiarato di avere da poco sostenuto un’offensiva informatic­a scatenata da numerose agenzie russe contro l’intero sistema americano. Sarebbe interessan­te avere qualche informazio­ne sul bottino raccolto dai russi e sui mezzi usati dagli americani per rintuzzare gli aggressori. Ma è ormai comunque evidente che esiste un nuovo modo per fare guerre senza immediato spargiment­o di sangue, anche se con risultati non meno disastrosi. I pirati informatic­i (in inglese

hackers) che sanno come raccoglier­e informazio­ni e scoprire i piani di uno Stato potenzialm­ente ostile, possono anche uccidere un uomo a grande distanza. Un caso particolar­mente interessan­te è quello del generale iraniano Qasem Soleimani, comandante delle forze Al Quds (il nome arabo di Gerusalemm­e), combattivo protagonis­ta di guerre medioorien­tali e vecchio nemico degli Stati Uniti. Non sarebbe stato ucciso all’inizio del 2020 nei pressi dell’aeroporto di Bagdad da un drone americano, se questo velivolo senza pilota non avesse potuto inseguirlo e prenderlo di mira. Un mondo in cui le vecchie spie, coraggiose e piene di fantasia, devono cedere il passo ai pirati informatic­i non è un mondo migliore.

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