Batteri resistenti agli antibiotici Le vie per combattere l’emergenza
Comportamenti individuali, scelte di aziende farmaceutiche e istituzioni: i consigli di Nicasio Mancini, microbiologo dell’Ospedale San Raffaele
Nell’era di Sars-CoV-2 è comprensibile che si sia parlato, quasi soltanto, di virus. Tuttavia, rimanendo nel campo delle malattie infettive, sarebbe opportuno non dimenticarsi dei batteri.
Perché se il coronavirus è un problema, per così dire «acuto», quello dei batteri che stanno progressivamente diventando resistenti agli antibiotici è un problema cronico, che in termini epidemiologici rischia di essere parecchio più devastante di Covid19 sul medio-lungo periodo. Secondo l’ultimo rapporto sull’antibiotico-resistenza consultabile sul sito dell’Istituto superiore di Sanità, il fenomeno non accenna a fermarsi e, anzi, è in crescita per diversi fra otto batteri sotto sorveglianza: Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species. Tradotto: diversi microbi diffusi e temibili stanno diventando capaci di farsi un baffo dell’azione degli antibiotici che abbiamo a disposizione. Per rimanere ai termini tecnici, quando si sente parlare, per esempio, di meticillino-resistenza, vancomicinoresistenza, colistino-resistenza, significa che le alternative stanno finendo o sono finite. Se andiamo avanti di questo passo all’orizzonte ci aspetta una civiltà pre-antibiotica, tale e quale a quella prima dell’avvento della penicillina, quando si moriva non solo per una polmonite, ma anche, non di rado, per un taglio, una ferita a cui oggi non daremmo grande importanza. Il problema è enorme e urgente. E paradossalmente proprio il coronavirus ha contribuito a ricordarcelo perché sebbene gli antibiotici non servano a eliminare i virus, sono serviti, eccome, tutte le volte in cui all’infezione virale se ne è sovrapposta una batterica in una situazione già difficile. E non si è trattato di poche eccezioni.
Peccato però che di farmaci efficaci contro i batteri ne abbiamo sempre meno. Del resto, si potrebbe dire, è «naturale», nel senso che è «naturale» la loro selezione, esercitata proprio dai farmaci che servono a combatterli: più si usa un antibiotico più aumentano le probabilità che nei suoi confronti si selezionino ceppi invulnerabili alla sua azione. Il motivo è semplice: i batteri sensibili a quel principio attivo vengono spazzati via e rimangono solo quelli che gli resistono, che quindi hanno poi modo di moltiplicarsi, di diventare sempre più numerosi e, infine, di prevalere sui ceppi sensibili, rendendo l’antibiotico in questione progressivamente inservibile.
Che cosa si può fare per arginare il problema? Si è detto e scritto innumerevoli volte, ma vale la pena ripeterlo: usare gli antibiotici bene, solo quando servono, chiedendo sempre al medico se, quando e come ricorrervi, rispettando tassativamente dosi e tempi di somministrazione e resistendo alla tentazione di fare di testa propria, magari prendendo qualche «avanzo» rimasto
Pericoli
Se continuiamo così, rischiamo di tornare ai tempi precedenti alla penicillina
in qualche scatoletta nell’armadio dei medicinali.
Fin qui quello che possiamo fare noi. A livello organizzativo-istituzionale si possono e si devono implementare strategie per limitare la diffusione di batteri resistenti soprattutto in ospedale.
E le case farmaceutiche? Perché non sfornano nuovi antibiotici visto che c’è n’è così tanto bisogno? Le ragioni sono diverse e complesse, però, fra le altre, c’è n’è una che potrebbe sembrare paradossale: gli antibiotici, come del resto i vaccini, sono nemici di se stessi. I vaccini lo sono perché, avendo di fatto eliminato molte malattie, fanno parlare di sé soltanto quando vengono segnalati problemi a loro attribuiti, e non per l’azione formidabile su larga scala che esercitano. Gli antibiotici inco vece sono nemici di se stessi dal punto di vista economico, perché di solito funzionano bene e in fretta: sono capaci nella maggior parte di fare il loro lavoro in pochi giorni senza grossi problemi, quindi non sono farmaci di cui si devono prendere moltissime dosi per lungo tempo.
Inoltre se un antibiotico viene usato diffusamente, come sarebbe auspicabile per chi lo produce, è probabile che diventi inservibile in fretta, proprio per lo sviluppo di ceppi resistenti, e quindi è etie ragionevole riservarlo, finché è possibile, ai casi indispensabili per non «bruciarlo». Non esattamente un quadro ideale per chi voglia scommettere soldi nella ricerca in questo settore. Infatti non sono poche le compagnie che si sono impegnate in merito negli anni e hanno dovuto abdicare. Per incoraggiare lo sviluppo di nuove molecole contro i batteri sono stati pensati diversi incentivi, ma non hanno funzionato abbastanza. È una questione di importanza primaria che deve essere affrontata a livello internazionale, ma che, come accennato, richiama intanto ciascuno di noi a fare la propria parte per un loro uso responsabile, come ben spiegato dal libro di Nicasio Mancini di cui si parla qui sotto.
Rimedi
L’entità del problema è mondiale ma ciascuno è chiamato a essere responsabile