Vendita del 12,5% di Saipem alla Cdp, i pm: operazione alle spalle degli investitori
La Procura conclude l’indagine. Nel 2018 anche intercettazioni ambientali in azienda
Nel 2015-2016 l’«operazione Techno» fu una di quelle operazioni di sistema con le quali il decisore politico di turno (governo Renzi) viene incontro alle esigenze di un campione nazionale (Eni) e, per sollevarlo da un onere (5,7 miliardi di debiti della controllata Saipem), trova un soggetto pubblico (Cassa Depositi e Prestiti) disposto a farsene carico. Ma questa operazione — con la quale Eni cedette il controllo di Saipem vendendone il 12,5% appunto a Cdp, cioè alla società del ministero dell’Economia che amministra il risparmio postale degli italiani e che è anche principale socia di Eni con il 25% — fu fatta alle spalle dei risparmiatori e sulla pelle degli interessi proprio di Cdp: almeno ad avviso della Procura di Milano, i cui pm Giordano Baggio, Piero Basilone e Paolo Filippini, nell’avviso di «deposito degli atti» (comprese intercettazioni ambientali dentro Saipem a cavallo delle perquisizioni nel 2018) e di «conclusione delle indagini», ora contestano le ipotesi di «falso in bilancio», «falso in prospetto» e «aggiotaggio» alla persona giuridica Saipem (società di ricerche petrolifere tra le più forti al mondo, controllata all’epoca da Eni), al suo amministratore delegato Stefano Cao, e all’ex direttore finanziario Alberto Chiarini (attuale ad di Eni Gas e Luce).
Con la cessione del 12,5% di Saipem al Fondo Strategico Italiano, strumento di Cdp per investire nelle aziende, l’Eni di Claudio Descalzi conseguì il vantaggio, strategicamente coerente con i propri interessi, di deconsolidare e quindi non dover più iscrivere a bilancio il debito di 5,7 miliardi di Saipem, che a quel punto dovette riossigenarsi con un aumento di capitale per 3,2 miliardi. Il 27 ottobre 2015 il prezzo di acquisto fu fissato tra i 7,40 e gli 8,83 euro per azione, ma presto in Borsa il crollo superò il 30% perché Saipem, tra la l’intesa sul prezzo e il closing nel gennaio 2016 ufficializzò ulteriori svalutazioni per 1,3 miliardi: ad avviso delle difese di Saipem, questi significativi peggioramenti della profittabilità erano comunque già ben presenti agli analisti di mercato, invece per la Consob (in sede di sanzioni amministrative) e ora per i pm Saipem avrebbe dovuto dichiararli al mercato già nell’esercizio 2015 (cosa che però per le clausole del contratto avrebbe potuto far saltare l’operazione).
Il risultato fu che Eni si liberò di 5,7 miliardi di debito e incassò 463 milioni; l’aumento di capitale di Saipem fu disastroso per i piccoli azionisti e per il consorzio di 11 banche impegnatesi a sottoscrivere con 500 milioni l’inoptato pari a ben il 12,2%; e la Cdp, allora presieduta da Claudio Costamagna con l’ad Fabio Gallia, vide dissolti sulla carta circa 365 dei 902 milioni investiti in Saipem tra acquisto e aumento di capitale.