Corriere della Sera

Giunti, il gentiluomo della Ferrari L’assurda tragedia che cambiò le corse

Piaceva al Drake, dolce nella vita e forte al volante: 50 anni fa lo schianto

- Giorgio Terruzzi

È questo il giorno per ricordare Ignazio Giunti, per condivider­e una storia intensa e tragica, un rimpianto profondo: 50 anni esatti dalla sua scomparsa,10 gennaio 1971, Buenos Aires. Mondiale Marche, vetture a ruote coperte per un’avventura meraviglio­sa, alternativ­a alla F1. Un incidente che fa ancora male al cuore. Il francese Jean Pierre Beltoise spinge la sua Matra senza più benzina lungo il rettilineo d’arrivo. Cerca di attraversa­re la pista direzione box. Nessuno lo ferma, interviene. Giunti guida la nuova Ferrari 312 PB, è in testa, sta doppiando un’altra Ferrari, la mastodonti­ca 512 di Mike Parkes. La sua visuale: coperta. Parkes riesce a scartare all’ultimo istante, Giunti colpisce in pieno la Matra, ferma come un macigno sull’ asfalto.

Morto sul colpo. Una consolazio­ne amara: la vettura prese fuoco, il corpo completame­nte ustionato, Arturo Merzario, al quale Ignazio avrebbe ceduto il volante il giro successivo, attonito e impotente davanti alla Ferrari in fiamme.

Una tragedia assurda. Fu intensa la polemica, Beltoise se la cavò con una squalifica di sei mesi, lo schianto avviò il percorso verso una maggiore sicurezza in pista. Sì, ma siamo alla seconda consolazio­ne debole di fronte alla fine di un ragazzo dolce nei modi, forte al volante. Una promessa sulla quale gli appassiona­ti italiani avevano puntato, un pilota che piaceva a Enzo Ferrari.

Era nato a Roma il 30 agosto 1941. Nobile la famiglia, figlio del barone Pietro e della contessa Maria Gabriella San Martino di Strambino. I suoi trent’anni raccontati con tenerezza in un libro scritto dal nipote, Vittorio Tusini Cottafavi («Ignazio Giunti. Un pilota, un’epoca», Rubbettino editore); la velocità, una calamita azionata da ragazzino, di nascosto dai genitori; il circuito di Vallelunga una palestra dove imparare, fare il matto, vincere. Con la sua Giulietta blu, per farsi notare dall’Alfa Romeo, in mezzo a una banda di ragazzi a caccia di gloria. Enrico Pinto, Spartaco Dini, Andrea De Adamich, Nanni Galli, con il quale fece a sportellat­e, fece amicizia e poi coppia nelle prove di durata. Radunati tutti sotto il marchio Autodelta, in gara con le indimentic­abili Gta, macchine che ancora adesso ostentano lo stile e lo spirito di un tempo felice. Anni sessanta: energia e vivacità, la guerra ormai lontana.

Ignazio: mocassini, camicia azzurra, il ciuffo castano, una naturale gentilezza. Campione europeo della montagna 1967, campione italiano Sport nel 1968 con la nuova Alfa 33, secondo alla «Targa Florio» con ai piedi le scarpe fatte su misura da Ciccio, l’artigiano di Cefalù che, grazie a lui, divenne il «calzolaio» dei campioni. Titolo italiano assoluto conquistat­o nel 1970 quando era ormai passato alla Ferrari, aveva vinto a Sebring e in Sudafrica, aveva debuttato in F1. Quattro Gp, quarto a Spa, la sua prima apparizion­e, Jacky Ickx e Clay Regazzoni compagni di squadra, la 312B tra le mani. Un casco originalis­simo, fatto dipingere da Mara, la sua fidanzata, la «M» stilizzata su fondo verde scuro. Il 1971 doveva essere l’anno decisivo. Correre in F1 non più «a gettone», e intanto vincere nel Mondiale Marche. Prima gara, in Argentina. L’ultima sua.

Eugenio Castellott­i, Lorenzo Bandini, Ludovico Scarfiotti, Ignazio Giunti. La lista di eredi perduti di Alberto Ascari sembrava interminab­ile, insopporta­bile. L’epitaffio, doloroso e malinconic­o, lo scrisse Enzo Ferrari: «Avrei potuto raccontare molto di più di Ignazio se la disgrazia di Buenos Aires non ce lo avesse portato via. Aveva talento, tanta passione ed eravamo in molti a volergli bene».

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Ignazio Giunti morì il 10 gennaio 1971 nella 1000 km di Buenos Aires, dopo aver urtato l'auto di Beltoise
Il rogo Ignazio Giunti morì il 10 gennaio 1971 nella 1000 km di Buenos Aires, dopo aver urtato l'auto di Beltoise

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