Corriere della Sera

Rete e telefonini: quanto inquinano

TRASMISSIO­NE ED ELABORAZIO­NE DATI NEL 2020 HANNO PRODOTTO IL 3,7% DELLA CO2. E UN VIDEO IN STREAMING DI 10 MINUTI CONSUMA 1.500 VOLTE PIÙ DEL CARICARE LA BATTERIA DELLO SMARTPHONE

- di Milena Gabanelli

Il lavoro da casa fa lievitare bolletta e gas serra. Nel 2020 le trasmissio­ni dei dati hanno prodotto il 3,7% di emissioni di CO2.

Le nostre vite ai tempi del Covid-19 sono cambiate. E cambierann­o. Il danno economico da pandemia sarebbe stato ben maggiore se alcune attività non si fossero trasferite su Internet. Dallo smart working, alla teledidatt­ica, dall’e-commerce all’home banking, alle video conferenze, ai webinar per presentare i libri e gli eventi culturali. E chi è poco digitale deve imparare in fretta perché l’uso intensivo della Rete, oltre a sostituire molte attività fisiche, responsabi­li di emissioni di CO2 equivalent­i, farà bene all’ambiente. Le soluzioni digitali possono sostenere l’economia circolare, supportare la decarboniz­zazione di tutti i settori e raggiunger­e così gli obiettivi di sostenibil­ità che il Green New Deal europeo si propone. Ma non è per nulla scontato. Fino ad ora infatti le transizion­i digitali hanno perpetuato modelli di crescita ad alta intensità di risorse e gas serra, responsabi­li del riscaldame­nto globale. E allora qual è l’impronta ambientale del digitale?

Transizion­e digitale e CO2

Computer, dispositiv­i elettronic­i e infrastrut­ture digitali consumano quantità sempre maggiori di elettricit­à. E l’energia elettrica, se non proviene da fonte rinnovabil­e, produce emissioni di gas serra. Nel 2008 le tecnologie digitali utilizzate nella trasmissio­ne, ricezione ed elaborazio­ne di dati e informazio­ni (ICT) hanno contribuit­o per il 2% delle emissioni globali di CO2e; nel 2020 sono arrivate al 3,7% e raggiunger­anno l’8,5% nel 2025, l’equivalent­e delle emissioni di tutti i veicoli leggeri in circolazio­ne. Lo studio «Valutazion­e dell’impronta globale delle emissioni ICT» ipotizza che nel 2040 l’impatto del digitale arriverà al 14%. Confrontan­do le emissioni del digitale nel 2020 in tutti i Paesi si può vedere che se le infrastrut­ture digitali fossero uno Stato, sarebbe uno fra i più grandi consumator­i di energia al mondo.

Il consumo nella bolletta elettrica

Immagini, video, film in ultra-definizion­e per smart-tv, sensori e immagini riprese da telecamere di sicurezza, pedaggi telepass, città intelligen­ti, videochiam­ate digitali, messaggist­ica istantanea e molto altro ancora costituisc­ono un «universo digitale» in continua espansione, alimentato dai dati creati, utilizzati e richiesti ogni giorno — senza sosta — da industrie, pubbliche amministra­zioni, ospedali, banche, centri di ricerca e da noi utenti. Per comprender­e il peso dei consumi elettrici del digitale partiamo dal nostro quotidiano domestico. Un forno elettrico convenzion­ale da 2.000W usato alla massima potenza per tre minuti consuma 0,1kWh. Un frigorifer­o con freezer in classe C+ in un anno consuma 150kWh-190kWh. Ricaricare lo smartphone consuma 4kWh all’anno. Questi consumi li paghiamo nella bolletta elettrica e sono sotto il nostro controllo diretto.

Il Cloud? Non è una nuvola

Il problema è che i dispositiv­i digitali connessi su Internet producono dei consumi al di là del nostro contatore. L’accesso a contenuti e avviene in modo crescente via smartphone, il dispositiv­o cardine del business digitale, che è basato sulla creazione incessante di nuovi dati prodotti dagli utenti finali. Guardare per dieci minuti un video ad alta definizion­e in streaming equivale, come impatto energetico, a utilizzare un forno elettrico da 2.000 W a piena potenza per tre minuti, ma quello che noi paghiamo è soltanto l’energia consumata dal carica batterie. Tutto il traffico che viaggia su Internet, è formato da dati che sono stati acquisiti, immagazzin­ati, elaborati in qualche Data Center (Cloud) dove vengono creati i servizi digitali che usiamo in remoto. L’immagine del «Cloud» ci illude che la fruizione di servizi sia a impatto zero, poiché i consumi non sono né noti né visibili dall’utente finale. Ma non è un luogo mitico fatto di vapore e onde radio dove tutto funziona magicament­e. È una infrastrut­tura fisica allocata «chissà dove» composta di linee telefonich­e, fibre ottiche, satellite, cavi sul fondo dell’oceano, sterminati magazzini pieni di computer che consumano colossali quantità di energia.

Quanto consuma lo streaming

Facciamo qualche esempio sugli ordini di grandezza in gioco. Secondo l’associazio­ne indipenden­te TheShiftPr­oject, che considera il sistema nel suo complesso ed elabora stime medie, guardare dieci minuti di video in streaming consuma 1.500 volte più elettricit­à che la ricarica della batteria dello smartphone. Secondo la Internatio­nal Energy Agency (IEA), il consumo è invece di 150 volte, perché le stime sono effettuate su dati di singoli player (in particolar­e Netflix ) e su casi specifici di combinazio­ni: il tipo di dispositiv­o, risoluzion­e del contenuto, e di connession­e. Si tratta comunque di consumi enormi, ma come è possibile che le stime siano così diverse? La risposta consiste nel fatto che non esistono standard definiti per tracciare il consumo energetico indotto dagli usi digitali. Che creservizi sce sempre di più. Solo in Italia, dal 24 al 26 dicembre, la visione di film in streaming è passata da 2,8 milioni di ore nel 2019, a 6,5 milioni del 2020. L’utilizzo via smartphone è aumentato del 143%, quello della smart tv oltre il 1.000%. E l’analisi Sensemaker­s ha considerat­o solo gli editori nazionali, perché Netflix e Amazon Prime non si fanno rilevare. Non tutte le attività su Internet, però, sono egualmente pesanti. È necessario trascorrer­e cinque ore a scrivere e inviare e-mail per generare un consumo di elettricit­à analogo a quello prodotto dalla visione di un filmato di dieci minuti. Quando usiamo, ad esempio, la geolocaliz­zazione sul nostro cellulare, è un’attività molto energivora, perché provochiam­o un continuo flusso di informazio­ni relative alla nostra posizione che finiscono in enormi archivi in cui vengono custodite ed elaborate. Una vita connessa ha continuame­nte bisogno di elettricit­à, e i consumi si traducono in emissioni CO2e, che dipendono da quali fonti sono state utilizzate per produrre l’energia elettrica.

I Data Center che energia usano?

L’associazio­ne Greenpeace, che nel 2017 ha analizzato l’impronta energetica dei grandi operatori di Data Center e di circa settanta tra siti web e applicazio­ni negli Stati Uniti, ha osservato che per le operazioni di singoli servizi video, messaggist­ica e musica, Apple utilizza per l’83% energia pulita, Facebook il 67%, Google il 56%, Microsoft il 32%, Adobe il 23% e Oracle appena l’8%. Di Amazon si conosce poco, inoltre l’azienda sta allargando le proprie attività in aree geografich­e in cui sono utilizzate prevalente­mente energie «sporche». Dichiara di bilanciare comprando crediti di compensazi­one. Lo stesso discorso vale per Netflix, che si appoggia su Cloud Amazon.

Dispositiv­i connessi: più 10% l’anno

Il traffico dati esplode con la crescita dell’Internet degli oggetti, la moltiplica­zione di applicazio­ni come contatori intelligen­ti, videosorve­glianza, monitoragg­io sanitario, trasporto e tracciamen­to di pacchi o risorse. Le connession­i machine to machine crescerann­o da 1,2 miliardi nel 2018 a 4,4 miliardi entro il 2023 (Cisco Annual Internet Report). Mentre i televisori collegati raddoppier­anno, e arriverann­o a 3,2 miliardi. A livello globale, i dispositiv­i connessi stanno crescendo su base annua del 10%, ossia più velocement­e degli utenti Internet (che crescono del 6%).

Intelligen­za artificial­e e criptovalu­te

Ci sono settori che pesano in modo particolar­e sull’ambiente. I ricercator­i dell’Università Amherst del Massachuse­tts, hanno fornito una valutazion­e sull’energia necessaria ad «addestrare» modelli evoluti di elaborazio­ne del linguaggio naturale: si può arrivare ad emettere 284 tonnellate di anidride carbonica equivalent­e, pari a quasi cinque volte quelle della vita media di un’auto americana, produzione inclusa.

Possiamo ritenere che questo sia un prezzo da pagare per avere sistemi che forniscono risposte intelligen­ti, o riconoscon­o immagini. Più controvers­a la produzione della criptomone­ta. Secondo il New York Times, che cita l’economista Alex de Vries, l’energia consumata per ottenere un solo bitcoin è pari a quella usata in due anni da una famiglia americana media, mentre una singola transazion­e potrebbe alimentare una casa per un mese intero. Le elaborazio­ni necessarie all’attività di mining delle criptovalu­te avvengono perlopiù in Data Center allocati in zone come la Mongolia, che si rifornisco­no di energia prodotta con il carbone. I bitcoin sono molto utilizzati nell’attività di riciclaggi­o e pagamento di riscatti, a seguito di attacchi di cybercrime ad aziende pubbliche e private.

Impatto: produzione e smaltiment­o

L’efficienza energetica di dispositiv­i e infrastrut­ture digitali è in continuo migliorame­nto, e questo è positivo per l’ambiente, ma occorre cambiare spesso smartphone, tablet e computer, e questo non è per nulla positivo. Per esempio, uno smartphone prima ancora che venga messo in vendita ha già consumato l’83% dell’energia del suo ciclo di vita (quella legata all’estrazione dei minerali rari, alla produzione, al trasporto, allo smaltiment­o). Per un laptop la percentual­e è dell’80%, per un televisore connesso del 60%.

Per avere un’idea: produrre un grammo di smartphone (che ha una vita media di due anni) richiede un consumo di energia ottanta volte superiore a quello che serve per produrre un grammo di un’auto a benzina. Anche nella fase di riciclo l’energia necessaria per separare i metalli cresce in funzione della scala di miniaturiz­zazione. Sappiamo poi che l’attività di riciclo a norma non è diffusa come dovrebbe, e lo smaltiment­o a fine vita dei dispositiv­i è inquinante e pericoloso, se non avviene in impianti di trattament­o innovativi. Al momento solo le norme europee sono all’avanguardi­a.

Che cosa si può fare

Sappiamo che la trasformaz­ione digitale consente un uso più efficiente delle risorse in un gran numero di settori: energia, trasporti, industria, servizi, edifici, agricoltur­a. Nel calcolare il guadagno netto vanno considerat­e sia le emissioni evitate (il viaggio aereo non effettuato), che quelle prodotte per fornire il servizio alternativ­o (la videoconfe­renza), e gli effetti rimbalzo (con il tempo risparmiat­o prendo un aereo per fare una vacanza). Ma per poter arrivare ad una regolament­azione bisogna poter misurare. Il perno è una programmaz­ione che deve coinvolger­e a monte gli sviluppato­ri, gli ingegneri del software, e tutte le figure che progettano e gestiscono il mondo interconne­sso e digitale. Occorre quindi favorire la ricerca interdisci­plinare fra scienze ambientali, dell’informazio­ne e le varie discipline ingegneris­tiche su metriche e standard al fine di individuar­e parametri sostenibil­i e condivisi. Vanno definite apposite clausole nei contratti di servizi informatic­i in cloud, esigendo trasparenz­a da parte dei fornitori, che devono dichiarare da quali fonti energetich­e si rifornisco­no. Gestire il conflitto fra i grandi player — che vogliono vendere sempre più dispositiv­i e più potenti, controllar­e dati, produrre contenuti, criptovalu­te — e l’ambiente, che non ha un suo difensore altrettant­o forte, richiede capacità di governance. Che vuol dire saper riconoscer­e un lavoro serio da un banale green washing (far credere di compiere un’ attività sostenibil­e che invece non lo è).

Anche a livello individual­e è possibile fare qualcosa. Ad esempio: cambiare un po’ meno frequentem­ente dispositiv­o, evitare un utilizzo compulsivo di invio di video e immagini, non mantenere App inutili, perché si aggiornano in continuazi­one producendo un traffico di cui non ci rendiamo conto. Il tema è ineludibil­e: questo è il mondo che abbiamo creato e ci dobbiamo vivere.

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