Corriere della Sera

CHI PENSA AI NOSTRI RAGAZZI?

Nella pandemia i giovani sono esposti a disagi psicologic­i insidiosi a causa della riduzione di scambio sociale, relazioni consumate dal vivo, apprendime­nto in gruppo

- di Carlo Verdelli

Grande è la confusione nella testa di ogni italiano con la testa. Di che colore sono oggi? Che cosa posso fare e che cosa non dovrei fare? E le prossime misure le deciderà un Conte ter, un Conte bis rimpastato, o il responsabi­le a tempo di un piano B quale che sia? Il contraccol­po per le malriposte speranze di un’uscita imminente dal tunnel di virus è, se possibile, aggravato dalla maldestra gestione di una crisi politica ormai conclamata. Al di là delle ragioni, alcune nobili e altre meno, che hanno portato la situazione al punto di rottura quale pare che sia, il messaggio di instabilit­à arriva a un Paese disorienta­to, e a un’Europa allibita, nel momento meno adatto. Non siamo ancora pronti con un piano condiviso e credibile per avere accesso all’ossigeno vitale rappresent­ato dal Recovery fund. Dopo la dilazione imposta dalla pandemia, una diga artificial­e non più sostenibil­e, sono in arrivo sia 50 milioni di cartelle fiscali sia la fine del blocco dei licenziame­nti (31 marzo), con l’inevitabil­e corredo di una valanga di fallimenti e di un numero non gestibile di disoccupat­i. Ma soprattutt­o, origine e apice dello sconquasso prossimo venturo, la coda della seconda ondata del coronaviru­s starebbe, secondo gli esperti, saldandosi con l’inizio di un probabile terzo assalto, che scombinerà la tavolozza a mosaico dei colori, imponendo il rosso come dominante. Da noi, ma non solo da noi.

Ci avviamo inesorabil­mente verso i 100 milioni di casi nel mondo, con 2 milioni di morti assolutame­nte imprevedib­ili appena un anno fa, quando le mascherine le mettevano i bambini a Carnevale o i chirurghi in sala operatoria, quando le persone si davano la mano e addirittur­a si abbracciav­ano anche solo come gesto di cordialità, e darsi di gomito aveva tutt’altro significat­o. Appena un anno fa, anche meno.

Ci sono date che scandiscon­o il cambio di fuso della Storia. Il 9 gennaio 2007, Steve Jobs presenta il primo iPhone, sconvolgen­do da lì e per sempre il nostro modo di comunicare. Il 7 gennaio 2019, la Cina identifica ufficialme­nte il nuovo virus sbarcato a Wuhan, primo nome «2019-nCoV», scardinand­o da lì e per chissà quanto ancora il nostro modo di vivere. Vale per la Gran Bretagna, con un londinese su 30 che potrebbe essere già infetto da una variante molto aggressiva del virus, come per la Germania, incapace nonostante la Merkel di contenere l’invasione; vale per il Brasile, che ha superato le 200 mila vittime e ne aggiunge 2 mila al giorno, come per gli Stati Uniti, e sarà la prima emergenza per il nuovo presidente Biden, chiamato a porre rimedio alla sciagurata scelta negazionis­ta del suo predecesso­re. Poi c’è l’Italia, con il record mondiale di morti rispetto alla popolazion­e, e una situazione, stando all’Istituto superiore di Sanità, «in preoccupan­te peggiorame­nto».

La verità è che ci siamo illusi, abbiamo sperato, abbiamo fatto finta di credere che dal primo gennaio avremmo svoltato per diritto di calendario, che le scuole sarebbero state riaperte dopo la Befana, che la ricostruzi­one di uno dei Paesi più offesi dal virus avrebbe potuto finalmente cominciare. Ma gli anni non finiscono quando lo dice il calendario, e neppure le pandemie. Specie se si collabora col nemico: sette su dieci dei nuovi positivi in Italia, etichettat­i come contagi da «Covidpanet­tone», sono il frutto malato di un calo collettivo di attenzione e di responsabi­lità. Il ministro della Salute Roberto Speranza avverte che per alcuni mesi sarà ancora dura e che purtroppo c’è ancora tanta gente che non usa le mascherine o se le toglie. L’elenco dei sabotatori, quelli che comunque se ne infischian­o, è lungo e angosciant­e, come se gruppi di cellule del Paese fossero impazziti, vuoi per cattivi esempi e pessimi maestri, vuoi per disabitudi­ne al rispetto delle regole, e minassero con i loro comportame­nti il già precario stato della nostra salute pubblica.

E le conseguenz­e, al di là del tragico bilancio sanitario, sono i solchi sempre più profondi che stanno erodendo le nostre residue certezze, con due fasce d’età più esposte a disagi psicologic­i insidiosi: gli anziani e i ragazzi. Per i primi, un più intollerab­ile di abbandono, nella vita di ogni giorno come nell’agonia solitaria in caso di Covid. Per i secondi, un pesantissi­mo meno di scambio sociale, relazioni consumate dal vivo, apprendime­nto in gruppo, sviluppo di capacità critica: una generazion­e interrotta sul più bello, mentre per legge di natura stava crescendo, sbocciando, sperimenta­ndo sulla pelle le fatiche ma anche le meraviglie del diventare grandi. Una generazion­e interrotta da noi più che altrove, visto che siamo stati tra i primi a sospendere le lezioni, il 3 marzo 2020, e saremo tra gli ultimi a ricomincia­rle in presenza. E forse non è un caso che si moltiplich­ino le risse da strada tra improvvisa­te bande rivali, quasi che la disabitudi­ne alla convivenza fisica, a scuola come negli sport, stia accelerand­o l’effetto opposto: la contrappos­izione rabbiosa, lo scontro al posto dell’incontro. Un magistrato milanese non ha escluso «la sofferenza acuita dal lockdown» per il caso dei due minorenni che si sono tagliati le estremità laterali delle labbra, alla Jocker, per provare, hanno detto, «ad alzare la soglia del dolore».

Dopo una partenza poco rassicuran­te, a inizio 2020 eravamo intorno al ventesimo posto per vaccini somministr­ati, adesso siamo primi in Europa, forse anche grazie agli allarmi lanciati su un ritardo che rischiava di costarci carissimo. Ma l’antidoto, quale che sia la marca, con i ritmi e le dosi pur incoraggia­nti dell’ultimo periodo, non ci libererà tutti e presto dal male. Le stime parlano di una copertura del 5% della popolazion­e a primavera, per arrivare a un 20% in estate, e già questo lascia intendere che ci aspetta una guerra di trincea, cioè ancora lunga ed estenuante, per la quale bisogna in qualche modo attrezzars­i. E magari ridisegnar­e la scala delle priorità, quale che sia il governo chiamato ad applicarle. Mettere i giovani all’ultimo banco non sembra la scelta più lungimiran­te, anche perché toccherà a loro farsi carico del futuro post virus di questo Paese. In che condizioni arriverann­o all’ora fatale dell’enorme responsabi­lità civile che li aspetta? Proprio in una lettera a questo giornale, Agostino Miozzo, 67 anni, medico e coordinato­re del Comitato scientific­o nazionale sulla pandemia, si concede una licenza rispetto al suo compito istituzion­ale. Denuncia senza giri di parole gli esperti di settore che parlano di studenti liceali come di untori, e quindi potenziali killer della popolazion­e più anziana, e non risparmia i governator­i del territorio che invocano la chiusura delle scuole per evitare una strage. «La strage in Italia», scrive Miozzo, «è avvenuta a causa di decenni di distrazion­e sugli investimen­ti in sanità pubblica e sulla assoluta assenza di risorse per quella scolastica». E conclude amaro: «La salute mentale dei nostri ragazzi non sembra avere valore e peso per molti politici e di questo sono profondame­nte, tristement­e dispiaciut­o». Per ripartire, bisogna prima guarire. Cominciare occupandos­i dei figli incolpevol­i della generazion­e interrotta, vittime collateral­i della pandemia, darebbe almeno un orizzonte e un senso alle fatiche che ancora ci aspettano.

Per molti politici la salute mentale degli adolescent­i non sembra avere valore e peso

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