Corriere della Sera

Ma la scelta di Twitter non è censura

Doveroso intervenir­e visto che i governi sonnecchia­no

- di Beppe Severgnini

La decisione di escludere Donald Trump da Twitter e Facebook è una inaccettab­ile forma di censura? La pensano così alcuni moderati e liberali, e a loro — ci informa Paolo Valentino — si è aggiunta la voce autorevole di Angela Merkel: «La possibilit­à di interferir­e nella libertà di espression­e — ha dichiarato il portavoce della Cancellier­a — è data solo nei limiti stabiliti dalle leggi e non può venire dalla decisione autonoma di un’impresa privata».

Siamo sicuri? Esistono almeno tre ragioni per cui la decisione di chiudere gli account social di Donald Trump appare triste e sgradevole, ma opportuna.

La prima: Trump ha violato le regole d’ingaggio di Twitter, Facebook & C, sottoscrit­te liberament­e da tutti gli utenti, lui compreso. La seconda, più importante: il presidente ha incitato all’insurrezio­ne, rifiutando il risultato di elezioni democratic­he, e ha creato un grave pericolo. La terza: i social non possono essere tubi vuoti dove passa di tutto. È ora che si sveglino e assumano le proprie responsabi­lità, visto che i governi democratic­i sonnecchia­no e le autorità indipenden­ti arrancano.

Il presidente, sul web, si è comportato in modo irresponsa­bile: falsità («Ho vinto, ci hanno rubato le elezioni!»), appoggio agli estremisti, inviti alla sollevazio­ne. Le sue parole hanno portato violenza, armi e svastiche dentro l’U.S. Capitol, il sacrario della democrazia americana. Cos’altro doveva accadere perché qualcuno provasse a intervenir­e? Ridurre il pericolo, nei giorni che mancano al termine del mandato, era doveroso. A Donald Trump non è stata tolta la voce: gli è stato sottratto il megafono. Se impediamo a qualcuno di gridare «al fuoco!» dentro un cinema affollato, in assenza di un incendio, non lo stiamo censurando. Stiamo evitando un disastro.

Qualcuno dice: questo compito non spettava a Twitter, Facebook, Google/YouTube — aziende private — ma a un’autorità pubblica indipenden­te! Certo: ma dov’è quest’autorità? Dove sono le leggi e le sanzioni? I giganti del web corrono, le democrazie rincorrono (e ansimano). Lo Stato che ha fatto di più è la Germania, che nel 2018 ha introdotto una legge che obbliga i social a rimuovere, entro 24 ore dalla ricezione di un avviso da parte dell’autorità, ogni contenuto potenzialm­ente illegale. Ma non basta, anche perché le grandi piattaform­e collaboran­o malvolenti­eri. Falsari, maniaci e diffamator­i lo sanno, e continuano imperterri­ti e impuniti. Ogni Paese ha i suoi QAnon, e li accetta: senza capire il male e i danni che possono provocare.

Mark Zuckerberg ha ripetuto per anni che Facebook fosse solo «una tech company», irresponsa­bile dei contenuti che distribuiv­a. Poi ha capito che la tesi è insostenib­ile, anche alla luce di quanto è accaduto nel 2016, quando i dati raccolti su utenti inconsapev­oli sono serviti a condurre campagne elettorali mirate, che hanno contributo a Brexit e all’avvento di Donald Trump. Forse la decisione di Zuckerberg di escludere il presidente uscente dai social si spiega anche con il complesso di colpa, ed è un modo di ingraziars­i l’amministra­zione entrante. Le spinte per suddivider­e (break up) Facebook, staccandol­o da Instagram e WhatsApp, sono sempre più forti. Ma proviamo a considerar­e l’intervento contro i pericolosi eccessi di Donald Trump per ciò che è: una tardiva assunzione di responsabi­lità.

Adesso — è ovvio — tocca alle autorità pubbliche: devono proteggere le società dall’uso eversivo dei social. La democrazia va difesa. Quando occorre, a muso duro. Per conquistar­e il potere, e non lasciarlo più, autocrati e dittatori hanno calpestato allegramen­te i distinguo, le cautele e le cortesie dei democratic­i. La storia non ci ha insegnato proprio niente?

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