Corriere della Sera

«Vaccini, la prima dose andrebbe fatta a tutti»

Il professor Remuzzi: l’approvvigi­onamento non basta, serve uno sforzo globale. Rinviare i richiami a 120 giorni

- di Marco Imarisio

«Meglio vaccinare un grande numero di persone con una dose singola — dice lo scienziato Giuseppe Remuzzi — che un piccolo campione con due dosi. Il richiamo si può ipotizzare anche dopo 120 giorni. Il livello di protezione indotto dalla prima dose è molto alto».

«Stiamo andando bene, perché esistono già tre vaccini sicuri ed efficaci, e presto ne arriverann­o molti altri. Ma se non facciamo tutti uno sforzo in più, non è certo che finirà bene, per lo meno a breve termine».

Professor Remuzzi, cosa la preoccupa di più?

«Anche quando funzionano, i lockdown mascherati e le zone di diverso colore sono pur sempre l’ammissione di un fallimento nella lotta al virus. Il vaccino invece è la soluzione. Insieme all’immunità naturale, ma quella nessuno può dire quando arriverà».

Servono sforzi maggiori?

«Non bisogna perdere un minuto. Stiamo vaccinando 400 mila persone alla settimana. Immaginiam­o pure di arrivare a 700 mila. Non basta».

Essere tra i più veloci in Europa non basta?

«Se in Italia le cose dovessero andare come stanno andando in Inghilterr­a o in Germania, rischiamo i mille morti al giorno. L’obiettivo di arrivare a 50 milioni di persone vaccinate entro la fine di marzo è utopico. Ma abbiamo il dovere di credere che sia possibile. E poi serve una strategia a medio termine. Altrimenti, il tema dei vaccini ce lo porteremo dietro per anni».

Cosa bisogna fare?

«Il primo problema è la produzione. Pfizer ha già detto che non ce la fa a coprire il fabbisogno. Bisognereb­be estendere l’accordo che AstraZenec­a ha fatto con Serum Institute of India ad altre compagnie, e mettere insieme tutti i siti produttivi del mondo. Oltre che in India e in Cina, ce ne sono in Sudamerica, Usa, Germania, e la Francia si sta attrezzand­o».

Una regia unica?

«Qualcosa del genere. Insieme, si possono fare miliardi di dosi e un piano affidato all’Oms e alle organizzaz­ioni internazio­nali dei vaccini permettere­bbe di far arrivare il vaccino dove serve di più».

In questo scenario l’Italia dove si colloca?

«Abbiamo un’industria farmaceuti­ca che ci colloca al primo posto in Europa e fra i primi al mondo dopo India e Cina: fabbrichia­mo l’11% della produzione mondiale di farmaci. Ma siamo fuori da questo gioco enorme».

Non è tardi per pensarci?

«Se il Covid sparirà nella sua forma più acuta, sarà perché i suoi vaccini resteranno a lungo nelle nostre vite. Per anni, forse decenni. Con rispetto, mi chiedo: ma in questa discussion­e sul Mes non si trovano 2-3 miliardi da destinare a un sito italiano capace di produrre i vaccini?».

Autarchia vaccinale?

«Al contrario. Si tratta di partecipar­e a uno sforzo globale in cui ogni Paese mette a disposizio­ne la propria capacità produttiva. Anche perché davanti a questa emergenza, l’Europa ha finalmente dato prova di esistere».

Allora dov’è il problema?

«Essere solo finanziato­ri e acquirenti, e non produttori in senso stretto, ci mette in una posizione di debolezza rispetto agli altri. Non riusciamo a contribuir­e. Se gli altri Paesi fossero come noi, non ci sarebbe alcuna disponibil­ità di vaccini. Servono orgoglio e lungimiran­za. Da qui ad aprile si gioca molto del nostro futuro prossimo».

Quanto pesa il ritardo di AstraZenec­a?

«Lancet ha pubblicato al riguardo un lavoro convincent­e. Zero casi di Covid grave in quelli che hanno fatto quel vaccino rispetto a chi ha fatto il placebo. In sostanza, abbiamo tre vaccini sicuri ed efficaci. Se L’Ema approva Astrazenec­a, in Italia ci avvicinere­mmo ai 15 milioni di dosi per i prossimi mesi. Questo è lo scenario più favorevole. Ma non sono sicuro che basti, soprattutt­o se si fanno due dosi ravvicinat­e. Stiamo entrando in una delle fasi più delicate della pandemia».

La sua proposta?

«Meglio vaccinare un grande numero di persone con una dose singola che un piccolo campione con due dosi. Si può ipotizzare di non fare il richiamo prima che siano passati 120 giorni. Il livello di protezione indotto dalla prima dose del vaccino è comunque molto alto».

A lei sembra così alto il 50 per cento dell’immunità?

«Alcuni lavori scientific­i, ultimo quello appena pubblicato sul New England Journal of medicine e riferito al vaccino Pfizer, e la presa di posizione del comitato inglese su vaccini e immunizzaz­ione, dimostrano come la quasi totalità dei contagi avviene nei primi 10-12 giorni dalla somministr­azione della prima dose. Dopo, si ha una protezione molto alta, fino al 90%».

La seconda dose non serve?

«Bisogna farla, ci mancherebb­e.

La gran parte dei contagi avviene a 10 o 12 giorni dalla prima iniezione, poi si è protetti fino al 90%

Ma non c’è evidenza che fare il richiamo subito o dopo qualche mese sia diverso. A mio parere, quando si partirà con una vera e propria campagna vaccinale, sarebbe meglio aspettare 120 giorni per la seconda puntura».

Al contrario di molti suoi colleghi lei è d’accordo con la proposta lanciata da Biden?

«Ne vedo i vantaggi. Potremmo intanto arrivare a giugno con un campione importante di popolazion­e vaccinato per metà. E con l’aiuto dell’estate, ricordiamo­ci che sempre di un virus stagionale stiamo parlando, potremmo tirare qualche somma».

La scoperta di un paziente positivo già a novembre cosa significa?

«Dimostra che il virus è con noi da molto tempo. E in parte aiuta a capire i numeri abnormi della Lombardia durante la prima ondata. Ma purtroppo questa malattia ci ha dimostrato più volte che con lei è bene non fare previsioni».

Non finirà presto, vero?

«Abbiamo capito da tempo che la bacchetta magica non esiste. Per questo l’Italia deve trovare il modo per entrare nel pool dei produttori di vaccini. Come sta pensando di fare la Francia. Con l’impegno delle autorità si può e si deve fare. È il momento di essere ambiziosi, e coraggiosi».

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Una donna con mascherina in bici a Milano. In Lombardia i contagi sono tornati a salire e l’Rt è vicino all’1,25 che col nuovo Dpcm introduce la zona rossa
Milano Una donna con mascherina in bici a Milano. In Lombardia i contagi sono tornati a salire e l’Rt è vicino all’1,25 che col nuovo Dpcm introduce la zona rossa
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Nefrologo Giuseppe Remuzzi, 71 anni, dirige l’Istituto Negri

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