Un anno fa a Wuhan: così è iniziato l’incubo
L’11 gennaio 2020 in Cina viene pubblicata la notizia della prima morte provocata da una «misteriosa» polmonite Solo il 30 gennaio viene sancita l’«emergenza internazionale», l’11 febbraio alla malattia viene dato un nome: Covid-19
Erano le 8.50 del mattino dell’11 gennaio 2020 quando l’agenzia Xinhua pubblicò una breve notizia vidimata dalla Commissione sanitaria nazionale: a Wuhan era deceduto un uomo colpito dalla «polmonite di origini misteriose» di cui si parlava da fine dicembre 2019. Allora, la malattia non aveva ancora un nome: solo l’11 febbraio gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità avrebbero deciso di chiamarla Covid-19, che sta per «Coronavirus Disease 2019», malattia causata da un virus a corona emerso nel 2019. Una scelta politica, per evitare l’espressione usata per settimane in Occidente: «virus cinese», che suonava come una condanna per Pechino. Già allora ci si preoccupava più della politica che della prevenzione. L’Oms dichiarò l’emergenza internazionale solo il 30 gennaio e aspettò fino all’11 marzo per dichiarare la pandemia, quando 165 nazioni avevano individuato dei casi. In Italia i primi malati individuati furono due turisti cinesi arrivati da Wuhan, ricoverati a Roma il 29 gennaio. Il Paziente 1 italiano fu scoperto il 2o febbraio all’ospedale di Codogno, il 23 si isolarono le prime zone rosse in Lombardia; il 10 marzo fu chiuso tutto il Paese.
Ma l’11 gennaio dell’anno scorso la «polmonite virale anomala» era ancora una crisi cinese. Il morto era un uomo di 61 anni, che come la maggior parte dei primi malati era un frequentatore del mercato di carne e pesce di Wuhan. La
Xinhua non citò il nome della vittima. Era deceduto in ospedale la notte del 9 gennaio e quel ritardo di due giorni nella comunicazione è anche il simbolo di molti punti oscuri nella gestione sanitaria iniziale dell’epidemia. Ma ufficialmente, l’11 gennaio, secondo le autorità di Wuhan non c’era alcuna epidemia: solo 41 casi accertati, il mercato era stato già sigillato e disinfettato il giorno 1, non c’era «alcuna prova di trasmissione del contagio tra esseri umani».
Il passaggio del coronavirus da persona a persona fu ammesso solo il 20 gennaio, dopo un’ispezione condotta dal più famoso virologo della Repubblica popolare, inviato da Pechino. Quel professore si chiama Zhong Nanshan e a 84 anni non ha paura di dire verità scomode. Fu il suo rapporto a spingere il governo centrale, il 23 gennaio, a mettere Wuhan in quarantena (non si diceva lockdown allora). In seguito il professor Zhong ha osservato: «Quando andai a Wuhan mi resi subito conto che i dirigenti locali non avevano piacere di dirci la verità, allora». I capi del Partito della città furono epurati a febbraio, quando il governo centrale scaricò sul loro silenzio la colpa del disastro. Si seppe in seguito che Xi Jinping era stato informato della crisi sanitaria incombente già il 7 gennaio.
Un anno e più di 90 milioni di contagi dopo, con due milioni di morti nel mondo, Pechino è finalmente pronta ad accogliere una missione di studio dell’Organizzazione mondiale della sanità. La squadra di 10 scienziati internazionali è attesa giovedì 14, dopo un’estenuante trattativa.
Ufficialmente, l’11 gennaio del 2020, secondo le autorità di Wuhan non c’era alcuna epidemia: solo 41 casi accertati
Un anno dopo, alle soglie dei due milioni di morti nel mondo, arriva in Cina la missione dell’Oms per stabilire l’origine del virus
Non si sa ancora quando gli investigatori dell’Oms potranno cominciare a lavorare: chiunque arrivi in Cina è sottoposto a quarantena di 14 giorni, chiuso in una stanza d’ albergo. Recentemente alcune città hanno prolungato l’isolamento obbligatorio a 21 giorni, tra queste Pechino.
Trovare nel mercato di Wuhan, svuotato da un anno e ripulito, tracce utili a determinare le origini della pandemia è impossibile. «Tendo a fissare aspettative molto basse», ha detto ieri il dottor Dale Fisher, capo della «Rete di risposta globale» Oms. Gli scienziati internazionali contano di poter avere accesso ai campioni di coronavirus raccolti all’inizio dai colleghi cinesi, ai dati archiviati dagli ospedali di Wuhan. Pechino nel frattempo si è impegnata nella riscrittura della narrazione, teorizzando che il Covid-19 si è «manifestato» ed è stato isolato a Wuhan, ma non è «nato» nel grande mercato insalubre della città di 11 milioni di abitanti.
A ottobre a Wuhan è stata aperta una mostra sull’«eroica vittoria contro il coronavirus»: seimila reperti tra foto, testimonianze audio, manichini di medici e infermieri, ricostruzioni di corsie ospedaliere, fanno rivivere il calvario terminato l’8 aprile, dopo 76 giorni. Nell’esposizione celebrativa c’è una foto del dottor Li Wenliang, che cercò di dare l’allarme sul virus e a inizio gennaio fu convocato dalla polizia e ammonito per «propagazione di voci false». Contagiato, il medico morì il 7 febbraio, a 34 anni, e sull’onda di sdegno popolare fu proclamato «martire»: ma la lapide sotto la sua foto non ricorda che fu censurato.
La Cina ha dichiarato 87.536 casi e 4.634 morti (l’80% a Wuhan e nella sua provincia, lo Hubei). La situazione da mesi è sotto controllo. Ogni volta che emerge un focolaio scatta la procedura per spegnerlo sul nascere: la zona viene posta in «modalità di guerra», la gente chiusa in casa, tamponi a tappeto. Ora sta succedendo nello Hebei, la provincia intorno a Pechino. Ieri sono stati rilevati 103 casi: il numero più alto in un giorno da luglio. Con 1,4 miliardi di abitanti, un centinaio di contagi non sarebbero statisticamente rilevanti. Però il governo vuole ridurre al minimo il rischio e Shijiazhuang, capoluogo dello Hebei è sigillata con i suoi 11 milioni di cittadini; la cintura di sicurezza è estesa fino alla periferia della capitale. Il Partito-Stato non si fida, dopo lo choc per Wuhan. Il premier Li Keqiang ha ammonito i funzionari provinciali a non sottostimare (nascondere) i numeri del contagio. «Bisogna cercare la verità nei fatti» dice Li, rispolverando una massima politica di Deng Xiaoping. Ma gli scienziati dell’Oms vedranno dove sono cominciati i fatti con più di un anno di ritardo.