Il discorso di Bergoglio e il passaggio dall’«Io» al «Noi»
Nell’interessante intervista che Francesco ha rilasciato domenica sera al Tg5, si insiste su una questione lessicale di non poca importanza: «Passata la crisi — ha ribadito il Papa rispondendo alle domande del vaticanista Fabio Marchese Ragona — ognuno ritorni a dire “Io”. In questo momento, un politico, anche un dirigente, un vescovo, un sacerdote, che non ha la capacità di dire “Noi” non è all’altezza. Deve prevalere il “Noi”, il bene comune di tutti».
Detto dal Papa, l’invito suona doppiamente importante perché i Pontefici si sono sempre espressi con il plurale maiestatico (o pluralis maiestatis), che consiste, appunto, nell’uso della prima persona plurale «noi» al posto della prima persona singolare «io» da parte di autorità politiche e religiose in contesti ufficiali e in occasioni solenni. Il nuovo Noi papale è segno di condivisione, l’Io di egoismo; specie in una società caratterizzata da un individualismo esasperato, da «selfie» emotivi, dall’affermazione del sé, dal disinteresse per gli altri.
Atteggiamenti che hanno trasformato stili e comportamenti della vita quotidiana. Anche nella scrittura. Ai tempi della tesi di laurea (anni fa), era proibito l’uso della prima persona singolare, anche quando si esprimevano opinioni personali. Si scriveva «noi» perché si presumeva che quanto affermato potesse essere condiviso dalla «comunità scientifica». Il sotterfugio era il ricorso all’impersonale, come suggeriva Eco: «Si deve dunque concludere che, pare allora assodato che, si dovrebbe a questo punto dire, è pensabile che, se ne inferisce pertanto che, a esaminare questo testo si vede che, eccetera». Anche nei giornali l’uso della prima persona era controllato (con il Noi era il giornale che si esprimeva, con l’Io il singolo collaboratore, di solito un rubrichista); poi si è perso il conto ed è prevalsa la cultura del narcisismo e/o della disillusione collettiva.