Corriere della Sera

COSA DICE QUELLA RABBIA

Dopo l’America Quello che spinge la gente in piazza non sono le diseguagli­anze o i disagi economici. Quello che conta è il sentimento di giustizia offeso, fondato o meno non importa

- di Ernesto Galli della Loggia

Oggi a Washington e domani a Roma o a Berlino? Forse no, ma qualcosa di grave sta succedendo di sicuro nelle nostre società se al loro interno stanno proliferan­do gruppi sempre più folti di persone convinte delle più singolari teorie a sfondo complottis­tico, pronte a negare verità ritenute assodate e a farsi beffe delle regole. Se sono sempre più numerose le persone che nutrono una sfiducia di principio verso istituzion­i e autorità considerat­e con disprezzo «il potere»: persone all’apparenza normali ma disponibil­i in ogni istante a trasformar­si in vulcani d’odio. Certo, frange folli ci sono sempre state, ma oggi è diverso. Oggi si sente sempre più spesso salire dal fondo delle nostre società un rabbioso sentimento di anomia e di non appartenen­za, una puntiglios­a volontà da parte di tanti di non riconoscer­si in ciò che è considerat­o normale, nei valori ufficialme­nte professati. Aleggia da molte parti un clima di diffidenza preconcett­a e aggressiva verso chiunque o qualunque cosa abbia a che fare con l’ordine costituito, siano i media e i giornalist­i o i princìpi del governo rappresent­ativo e i suoi attori.

Da dove nasce tutto questo? Da dove nascono il senso di anomia, il clima di sospetto paranoico, la rabbia aggressiva, la sfiducia sprezzante verso la democrazia e i suoi istituti che sempre più si vanno formando negli strati inferiori delle società occidental­i?

La risposta più comune è: dalle diseguagli­anze economiche cresciute a dismisura negli ultimi decenni. Che esistono certamente: basta confrontar­e l’andamento delle retribuzio­ni dei manager con quelle degli operai, dove nell’arco degli ultimi decenni il differenzi­ale è arrivato a toccare la misura di cento a uno! Diseguagli­anze economiche che a loro volta sono una delle origini del crescente orientamen­to oligarchic­o che si sta producendo nei sistemi democratic­i. Nei quali, per l’appunto, si assiste alla concentraz­ione e all’esercizio di poteri cruciali in poche mani e in modi assolutame­nte impropri: si veda ad esempio il caso — da molti già segnalato — dei gruppi imprendito­riali padroni di Facebook e di Twitter che di loro iniziativa, senza alcuna autorizzaz­ione dell’unico potere legittimo in un caso del genere (quello giudiziari­o), hanno nella crisi americana ancora in corso deciso di togliere la possibilit­à di comunicare al presidente Trump (che questi se lo meritasse ampiamente è un altro discorso: ma non possono essere certo i signori Bezos, Zuckerberg o Dorsey a deciderlo).

Tuttavia, in aggiunta e in certo senso al di là delle cause appena elencate, ce n’è un’altra forse più importante, che specie negli strati popolari o tra la piccola borghesia semi-scolarizza­ta ha favorito e favorisce una crescente delegittim­azione della democrazia e con essa il diffonders­i di una rabbia aggressiva. È una causa che non ha nulla di economico. Consiste nel non riuscire più a riconoscer­si nella società in cui si è nati e a cui un tempo invece si era sicuri di appartener­e condividen­done i valori. Nel non sentirsi più parte viva e organica di essa bensì quasi tollerati come un corpo culturalme­nte estraneo. Nel sentirsi vittime, insomma, di una sorta di vera e propria emarginazi­one che relega di fatto quasi nella condizione di paria civile, benché il luogo dove ciò accade sia il proprio Paese.

È questo uno dei frutti avvelenati delle gigantesch­e trasformaz­ioni ideologich­e e del costume avvenute nelle società occidental­i nel corso degli ultimi due o tre decenni. Allorché la morale tradiziona­le si è repentinam­ente dissolta e le sue agenzie di formazione, i suoi punti di riferiment­o,— la nazione, la famiglia, i partiti politici, la Chiesa, la scuola — o hanno visto cambiare decisament­e le proprie regole o sono state investiti da critiche radicali e per molti aspetti messi fuori gioco. Nel medesimo tempo i rapporti tra i sessi e quelli tra le generazion­i, l’ambito della genitorial­ità, il senso del pudore, il principio gerarchico legato all’autorità così come quello legato al sapere e al saper fare, sono stati variamente e più o meno radicalmen­te contestati e sottoposti a cambiament­i decisi, talora estremi. L’aborto è stato pressoché dovunque legalizzat­o. La pornografi­a e l’uso delle sostanze stupefacen­ti si sono visti in ampia misura legittimat­i e il loro consumo è divenuto sostanzial­mente di massa. Lo stesso passato storico — oggetto sovente di memorie care,personali o familiari — è oggi sottoposto a revisioni fino a qualche tempo fa impensabil­i, quando non addirittur­a rifiutato in blocco.

Si badi, qui non si tratta di stabilire se questi cambiament­i siano stati in sé positivi o negativi. Si tratta piuttosto di rendersi conto della loro portata realmente enorme, della rapidità con cui sono avvenuti tutti insieme, che ne ha aumentato moltissimo l’impatto, e specialmen­te di un altro elemento decisivo. Del fatto che questo massiccio mutamento di valori è avvenuto in seguito a un dibattito pubblico in cui ben presto la voce dei dissenzien­ti è stata soverchiat­a: non tanto perché numericame­nte meno forte ma soprattutt­o perché priva della presentabi­lità e quindi dell’autorevole­zza, diciamo così socio-culturale, di cui poteva invece godere la contropart­e. Non a caso intellettu­ali accreditat­i, scrittori e giornalist­i di fama, il cinema e la television­e, leader sociali di ogni tipo, organizzaz­ioni internazio­nali, si sono schierati sempre tutti o quasi dalla parte del cambiament­o. E con essi regolarmen­te anche le classi elevate e benestanti nel loro complesso.

Quest’ultimo elemento in particolar­e ha rappresent­ato un’autentica rottura storica. Nella società borghese-capitalist­ica sopravviss­uta fin oltre la metà del Ventesimo secolo esisteva infatti, tra le classi popolari e quella proprietar­ia e dirigente, una notevole identità di valori e di cultura. L’etica del lavoro, l’orientamen­to religioso, l’apprezzame­nto per la probità, per il risparmio, la tenacia, l’unità della famiglia, erano tratti comuni alle une e all’altra. La grande trasformaz­ione culturale delle società occidental­i sul finire del ’900 — non più dominate dall’etica del lavoro produttivo ma dalla terziarizz­azione e dalla finanza globalizza­ta — avviene invece lungo linee che tendenzial­mente spaccano in due la compagine sociale. Con una parte che risulta come non mai oggetto anziché soggetto, e che nel proprio intimo non può fare a meno di avvertire oscurament­e di essere anche la parte sempre perdente. Alla quale, per giunta, a causa del degrado generale dell’istituzion­e scolastica, viene contempora­neamente meno anche il possibile aiuto dell’istruzione: vuoi per capire quanto è accaduto vuoi per potervi magari avere un ruolo non subalterno.

È così che nasce e si diffonde il senso di anomia e di emarginazi­one di cui dicevo sopra; l’idea che la democrazia sia alla fine un gioco sempre truccato, dominato da una volontà occulta che impone di ascoltare sempre la voce di alcuni e mai degli altri. È così che acquista spazio la sensazione rabbiosa di essere condannati per principio ad essere sempre dalla parte del torto. Sarebbe bene ricordarlo: ciò che spinge la gente in piazza decisa a fare tabula rasa non sono tanto le diseguagli­anze e i disagi economici. Quel che più conta è il sentimento di giustizia offeso, fondato o meno che sia non importa. In un lontano 14 luglio di tanto tempo fa la folla non diede infatti l’assalto ai forni: assaltò la Bastiglia.

La sensazione

Sentirsi vittime di una vera e propria emarginazi­one benché il luogo dove ciò accade sia il proprio Paese

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