SE LA RICERCA ABBANDONA L’ITALIANO
La discussione sull’inglese produce in genere due opposti schieramenti. Quelli che volano sulle ali delle magnifiche sorti e progressive (anglofone), quelli che amano zavorrarsi nella tradizione (ah, il nostro povero italiano!). Esistono però più ragionevoli posizioni intermedie. Ora il ministro dell’Università ha deciso che anche quest’anno i progetti di ricerca (Prin) vengano redatti solo in inglese. Data per ovvia l’efficacia di una lingua, come l’inglese, che agisce da anni quale codice globale specie in ambito scientifico, è da truci passatisti porsi qualche domanda sull’italiano? Non sul suo astratto prestigio culturale, ma sulla sua funzionalità e vitalità, ovvero, come sostiene da tempo Maria Luisa Villa, immunologa e membro dell’Accademia della Crusca, sul suo «adeguamento al fluire della storia». Che significa? Significa che appiattirsi su una sola lingua annienta, con il plurilinguismo, le molteplici prospettive di pensiero e di cultura di cui le altre lingue sono portatrici. Così come rischia di ridurre a zero la possibilità di una relazione tra scienza e società locale. Se ne rende conto anche la rivista internazionale «Nature», che ha deciso di ospitare supplementi nelle lingue europee (il primo articolo bilingue è toccato all’italiano). Per questo sarebbe indispensabile tener vivo il linguaggio scientifico nella propria lingua madre, pena il trasformarla in dialetto. E per questo, la Crusca chiede che accanto all’inglese resti l’italiano nella redazione delle domande nei Prin. Resta da precisare che l’inglese funzionerebbe in chiave di trasparenza, in quanto aprirebbe a commissari stranieri (anglofoni) esenti dal conflitto di interessi degli italiani. Giusto. Ma come avverte Claudio Marazzini, presidente della Crusca, se esistono sospetti del genere a maggior ragione si richiede un testo italiano accessibile a tutti i cittadini italiani, anche non anglofoni e non scienziati.