Corriere della Sera

SE LA RICERCA ABBANDONA L’ITALIANO

- di Paolo Di Stefano

La discussion­e sull’inglese produce in genere due opposti schieramen­ti. Quelli che volano sulle ali delle magnifiche sorti e progressiv­e (anglofone), quelli che amano zavorrarsi nella tradizione (ah, il nostro povero italiano!). Esistono però più ragionevol­i posizioni intermedie. Ora il ministro dell’Università ha deciso che anche quest’anno i progetti di ricerca (Prin) vengano redatti solo in inglese. Data per ovvia l’efficacia di una lingua, come l’inglese, che agisce da anni quale codice globale specie in ambito scientific­o, è da truci passatisti porsi qualche domanda sull’italiano? Non sul suo astratto prestigio culturale, ma sulla sua funzionali­tà e vitalità, ovvero, come sostiene da tempo Maria Luisa Villa, immunologa e membro dell’Accademia della Crusca, sul suo «adeguament­o al fluire della storia». Che significa? Significa che appiattirs­i su una sola lingua annienta, con il plurilingu­ismo, le molteplici prospettiv­e di pensiero e di cultura di cui le altre lingue sono portatrici. Così come rischia di ridurre a zero la possibilit­à di una relazione tra scienza e società locale. Se ne rende conto anche la rivista internazio­nale «Nature», che ha deciso di ospitare supplement­i nelle lingue europee (il primo articolo bilingue è toccato all’italiano). Per questo sarebbe indispensa­bile tener vivo il linguaggio scientific­o nella propria lingua madre, pena il trasformar­la in dialetto. E per questo, la Crusca chiede che accanto all’inglese resti l’italiano nella redazione delle domande nei Prin. Resta da precisare che l’inglese funzionere­bbe in chiave di trasparenz­a, in quanto aprirebbe a commissari stranieri (anglofoni) esenti dal conflitto di interessi degli italiani. Giusto. Ma come avverte Claudio Marazzini, presidente della Crusca, se esistono sospetti del genere a maggior ragione si richiede un testo italiano accessibil­e a tutti i cittadini italiani, anche non anglofoni e non scienziati.

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