Corriere della Sera

«Ha incitato i rivoltosi» Secondo impeachmen­t per Donald Trump

- di Giuseppe Sarcina commento di Massimo Gaggi

La Camera ha votato l’impeachmen­t contro Donald Trump. È l’unico presidente ad aver subito il provvedime­nto per due volte. I «sì» sono stati 232 e 197 i «no». A favore dell’impeachmen­t tutti i democratic­i più dieci repubblica­ni. Tra di loro anche Liz Cheney, la figlia dell’ex vice presidente Dick Cheney e, soprattutt­o, numero tre nell’organigram­ma repubblica­no della Camera. L’accusa contro il presidente uscente era contenuta in un solo articolo, ma pesantissi­mo: «Incitament­o all’insurrezio­ne».

Twitter e Facebook sono società private libere di accogliere utenti o anche di espellerli se non rispettano le loro regole. Trump le ha violate ed è stato giustament­e messo alla porta: bene così, non c’è bisogno dell’intervento oppressivo dello Stato. Niente affatto: un’impresa privata non si può sostituire a un’autorità politica democratic­amente eletta arrogandos­i il diritto di dare o togliere la parola, tanto più se diventa un quasi monopolio e quindi svolge una funzione pubblica.

Leggiamo di queste posizioni contrappos­te da giorni: a livello politico Angela Merkel e il ministro francese Bruno Le Maire per i quali è inaccettab­ile che a imporre un qualunque limite al fondamenta­le diritto di parole sia un’azienda privata, mentre negli Usa molti democratic­i plaudono alle decisioni di Twitter e Facebook dopo che a chiedere di ridurre Trump al silenzio era stata addirittur­a Michelle Obama. Nel confronto intellettu­ale di casa nostra si passa dal perentorio «incredibil­e che un’impresa economica volta al profitto possa decidere chi parla e chi no» di Massimo Cacciari a Giuliano Ferrara per il quale «una decisione di Stato è, quella sì, una censura, mentre negare l’accesso a Twitter a chi mette in pericolo la società aperta è un atto di libertà e un privato che la compie... va elogiato per questo e semmai castigato per i suoi ritardi».

Questo dibattito che infiamma tutte le democrazie occidental­i risente anche di diversità che caratteriz­zano le due sponde dell’Atlantico: un’Europa con Stati più forti, più propensa a regolament­are (anche perché i giganti digitali sono tutti extra UE) mentre l’America non è riuscita a darsi norme condivise per tre motivi. Intanto per la forza lobbistica di aziende della Silicon Valley, un tempo gioiose start up convinte di essere sorgenti di felicità (e per questo lasciate all’inizio totalmente libere) divenute in pochi anni giganti onnipotent­i gestiti con logiche capitalist­e legittime ma spietate. Gli Usa devono poi vedersela col totem di un Primo emendament­o della Costituzio­ne (quello che garantisce l’assoluta libertà d’espression­e) spesso frainteso e usato per battaglie strumental­i (quella norma vieta censure governativ­e ma non vincola i soggetti privati e comunque non si applica ai reati d’odio).

Infine la paralisi di un sistema politico bloccato da contrappos­izioni sempre più insanabili fra democratic­i e repubblica­ni.

Nel momento in cui dalla crisi politica si passa a bagliori da guerra civile che penetrano nel tempio della democrazia credo vada fatta una distinzion­e fondamenta­le: il silenziame­nto di Trump e la spina di Parler staccata da Amazon, Google e Apple sono interventi ammissibil­i, forse inevitabil­i, davanti all’emergenza di un Paese che vede messe in grave pericolo le sue istituzion­i democratic­he. È una sorta di legge marziale della comunicazi­one proclamata da imprese, anziché dal governo, in un momento di drammatico vuoto politico: troppo pericoloso continuare a far circolare in rete inviti alla rivolta, a usare l’insediamen­to di Biden per sovvertire le istituzion­i democratic­he. Le imprese avvertono riservatam­ente di essersi mosse anche perché consapevol­i di essere in presenza di un rischio estremo (segnalato da servizi di sicurezza e verificato nel traffico di messaggi che incitano alla rivolta e la organizzan­o). E Trump, che a parole si dice contro la violenza ma poi invita il suo popolo ad agire con forza e continua a sostenere che

Biden è un presidente illegittim­o continua, evidenteme­nte, a versare benzina sul fuoco.

Riconosciu­to tutto ciò, però, non si può in alcun modo sostenere che le aziende di Big Tech siano nel giusto e che non spetti all’autorità politica regolare un fondamenta­le interesse pubblico. Certo, i rischi di «abusi da Superstato» indicati da Ferrara ci sono, ma lui stesso ammette implicitam­ente che servono regole quando sostiene che i Zuckerberg e i Dorsey andrebbero puniti per i loro ritardi. Con la rivoluzion­e dalla comunicazi­one digitale Facebook e Twitter pesano più di tante istituzion­i di garanzia dei sistemi democratic­i. Scelte essenziali per i nostri destini non possono essere lasciate a personaggi che secondo Alec Ross, che li ha conosciuti bene, sono ingegneri geniali ma incapaci di capire i problemi politici e le dinamiche sociali. È accettabil­e che Zuckerberg, che per anni ha respinto o minimizzat­o gli allarmi che gli arrivavano da ogni parte, intervenga solo quando la stalla è ormai da tempo vuota?

Oggi il problema non è stabilire se servono norme per Big Tech (adesso anche Zuckerberg le invoca): l’autoregola­mentazione non può funzionare anche perché contrasta col (legittimo) obiettivo della massimizza­zione del profitto in un settore, quello delle reti sociali, il cui business model, come nota Ian Bremmer, è intrinseca­mente antidemocr­atico: esasperazi­one ed estremismo mandano alle stelle traffico, fatturato e profitti.

I problemi sono l’inadeguate­zza della politica che, anche al netto dei conflitti paralizzan­ti, fatica a comprender­e le implicazio­ni della nuova realtà digitale e la crescente sfiducia dei cittadini denunciata anche dal «barometro sociale», dei sondaggi planetari di Edelman: dopo la pandemia c’è da combattere (senza vaccini) anche una «infodemia».

Il silenziame­nto di Trump era forse inevitabil­e. Ma spetta ai governi, non alle grandi compagnie, regolare l’interesse pubblico

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Il presidente in Texas (foto Ap)
Lungo il muro Il presidente in Texas (foto Ap)

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