Corriere della Sera

«Io, Aurelia, nata ad Auschwitz»

Il ricordo inedito di uno dei due bimbi italiani che furono partoriti nel lager

- di Walter Veltroni

Quando le telefono è il giorno del suo compleanno. Compie 75 anni.

Ma in questo caso, conta, insieme alla data di nascita, il luogo in cui questa è avvenuta. La signora Aurelia Gregori è venuta al mondo nel campo di concentram­ento di Auschwitz il 13 gennaio del 1945. Il suo è un racconto inedito. È la vicenda di uno dei due neonati italiani la cui identità è stata ricostruit­a attraverso l’analisi di documenti conservati nell’Archivio di Auschwitz, l’elenco delle donne con bambini ricoverate, dopo la nascita, nell’ospedale allestito nell’ex Lager subito dopo l’arrivo dei sovietici, i cui dati sono stati analizzati e messi a confronto con la documentaz­ione italiana di vario tipo e della Croce Rossa internazio­nale. È un lavoro coordinato da Marcello Pezzetti, uno dei massimi studiosi della Shoah, insieme alla storica Sara Berger, che, con Pezzetti, per la Fondazione Museo della Shoah di Roma, ha effettuato la ricerca per la realizzazi­one dell’esposizion­e «Dall’Italia ad Auschwitz», da Liliana Picciotto e dal suo staff del Centro di Documentaz­ione Ebraica Contempora­nea di Milano, da Laura Tagliabue, dell’ANED di Sesto San Giovanni, e da Dunja Nanut, dell’ANED di Trieste.

Ne sta uscendo un quadro della deportazio­ne dall’Italia ad Auschwitz del tutto inedito, ricco di novità assolute, spesso sconvolgen­ti. Una di queste è l’avvenuta deportazio­ne di un numero incredibil­mente consistent­e di donne da Trieste, arrestate in tutto il territorio del Litorale Adriatico, incarcerat­e nel penitenzia­rio del Coroneo e deportate ad Auschwitz, come tutte le persone di origine ebraica. Tra queste donne c’erano le due giovani che hanno dato alla luce un bambino e una bambina nelle condizioni insostenib­ili del campo di Auschwitz. Una di queste era Aurelia Gregori, una ragazza triestina di ventitrè anni che partorì, in quell’inferno, una bambina alla quale diede poi il suo stesso nome.

«Mia mamma non era ebrea e non era antifascis­ta. Era una ragazza come tante. Fu presa da due fascisti che la sequestrar­ono e la portarono a Villa Triste dove fu stuprata. Poi l’hanno messa su uno di quei treni piombati, destinazio­ne Birkenau».

Villa Triste era in via Bellosguar­do numero otto, a Trieste. Era stata la casa di una famiglia ebraica che, per spietato contrappas­so, fu trasformat­a nella sede dell’Ispettorat­o speciale di Pubblica Sicurezza dove operava la banda Collotti che prendeva il nome da un funzionari­o di polizia che Paolo Rumiz ha così descritto: «Il capo era tale Gaetano Collotti, un tipo distinto che andava a messa ogni mattina prima di iniziare il lavoro. Per non far sentire le urla dei disgraziat­i — in gran parte sloveni del Carso e altri antifascis­ti di lingua italiana — faceva sparare intorno musica ad alto volume». Molti sono stati torturati lì e anche nella caserma dei carabinier­i di via Cologna. È sempre Rumiz a dare voce al racconto di quel martirio attraverso le parole di Sonia Amf Kanziani: «Un giorno mi appesero con altre tre donne. Avevamo solo gli alluci che toccavano terra. Guardi, porto ancora ai polsi i segni delle corde. Ci picchiavan­o e Collotti guardava, impassibil­e. Diceva: se parli ti aiuteremo. Ma aveva due cani lupo pronti a strapparci la carne. A un tratto mormorai in sloveno: Gesù, a te ti hanno tormentato per tre giorni, io sono qui da tre mesi. Tu ci hai messo tre ore a morire, io muoio ogni giorno... Allora mi percossero ancora più forte, gridando che non dovevo parlare quella lingua schifosa. Furono in molti a vedermi uscire svenuta e piena di sangue dalla stanza. A guerra finita un medico mi visitò e mi chiese come avevo fatto a uscire viva da una simile pena».

«Mia madre» dice oggi Aurelia Gregori «lì fu violentata dagli aguzzini che poi l’hanno trasferita ad Auschwitz-Birkenau. Solo quando sono stata più grande mi ha raccontato ciò che aveva subito nel campo: le baracche, i corpi delle persone agonizzant­i portati dentro la sera per essere spostati, morti, il mattino dopo. L’orrore delle kapò che si vendevano ai nazisti. Mi ha raccontato di quando ha contratto il tifo, al sesto mese di gravidanza, e di quante persone ha visto cadere intorno a lei per sfinimento, fame, freddo. Non ci si rende conto di cosa fosse l’inverno lì. Mamma andava con le altre prigionier­e a vuotare al mattino i bidoni con le feci nella tundra, nel gelo, sotto zero e vestite di niente. Lei non ce la faceva più, voleva farla finita, era al nono mese, era stremata. Una sua compagna era fuggita e i nazisti, quando qualcuno scappava, scioglieva­no i cani che prendevano i fuggitivi e li sbranavano.

Le Ss non si erano accorte che mamma era incinta perché lei era alta e nascondeva la pancia. Altrimenti l’avrebbero certamente mandata nella camera a gas. È stata fortunata e io con lei. Col tifo ha temuto di non farcela, mi ha detto che pensava: “Muoio e muoio insieme a te”. Dio ci ha salvate, insieme.

Io sono nata a gennaio. Il parto glielo hanno fatto fare su un tavolaccio di pietra. Mamma non aveva le doglie, le contrazion­i, non riusciva a partorire. Era troppo debole, aveva fame, non mangiava nulla, aspettava che qualcuno morisse per prendere un pezzo di pane. Mi ha detto: “Dovevo far sopravvive­re te e me. Eravamo in due. Io pensavo che saresti venuta fuori come un mostro. Se fosse stato così ti avrei lasciato lì, sotto la neve. Invece, nonostante tutto, eri una bella bambina. Avevi molti peli, e questo ti salvò dalla marchiatur­a col numero che i nazisti volevano farti”.

Mia mamma cercò invece, con un chirurgo, di far venire via quelle cifre impresse nel suo braccio. A Trieste, dopo la guerra, meno parlavi dei lager e dei nazisti e meglio era. Io, che lavoravo in ospedale nel reparto geriatrico, stavo zitta. Alla scuola elementare le maestre, che erano ebree, certamente avranno avuto un sobbalzo nel leggere il luogo in cui ero nata, ma non mi hanno mai detto nulla».

Aurelia è rimasta in vita perché non era ebrea, altrimenti sarebbe stata eliminata come i tanti bambini le cui foto ogni giorno l’Auschwitz Memorial pubblica sui social network. Furono portati nel lager circa duecentotr­entamila bambini e adolescent­i, ne sopravviss­ero alcune centinaia. Ci sono pagine atroci come quella del martirio dei venti bambini ebrei sequestrat­i da Mengele per gli esperiment­i e poi trucidati nella scuola di Bullenhuse­r Damm o il racconto che faceva Shlomo Venezia, uno dei deportati, che testimoniò di aver visto con i suoi occhi un neonato strappato dal seno della madre morta nella camera a gas e lanciato in aria dai nazisti che gli spararono così.

Aurelia riprende a parlare: «Io non sono mai voluta andare ad Auschwitz, mamma invece ci è tornata con l’associazio­ne. Lei ha sofferto tanto, per tutta la vita. Faceva la pulitrice dei condomini. È morta nel 2012, il 14 marzo».

Di lei i freddi dati degli archivi dicono questo: «Aurelia Gregori (1921-2012), nata a Sant’Antonio (Villa Decani, Capodistri­a, oggi in Slovenia) viene arrestata il 24 maggio 1944 a Trieste nella sua abitazione di Largo Barriera Vecchia n. 14. Quando viene deportata ad Auschwitz, dove arriva il 25 giugno 1944, è incinta di tre mesi. Immatricol­ata con il numero 82120, resiste alle spaventose condizioni igienico-sanitarie del campo e il 13 gennaio 1945, due settimane prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, riesce a dare alla luce una bimba che riceve il suo stesso nome: Zlatka/Aurelia Gregori. La bimba viene battezzata nel febbraio in una chiesa a Brzeszcze.

Aurelia rientra a Trieste il 20 settembre

1945».

Dell’altro bambino nato ad Auschwitz si sa solo che, da grande, non ce l’ha fatta.

Fu violentata dagli aguzzini che poi la misero sul treno per Birkenau. Era sfinita dal freddo e dalla fame, si ammalò di tifo e pensò di non farcela. Venni alla luce su un tavolaccio di pietra. Mi disse: pensavo saresti stata un mostro, invece eri una bambina bellissima

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La foto Trieste, autunno del 1945: Aurelia Gregori in braccio alla madre Aurelia, accanto a loro la zia. I due documenti in alto sono l’elenco degli ex prigionier­i di Auschwitz curati dalla Croce Rossa polacca tra i quali figurano le Gregori e il certificat­o di battesimo della bimba celebrato nel febbraio del 1945

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