QUELLO CHE RESTA DI TRUMP PER LA DESTRA (E LA SINISTRA)
La svolta È l’occasione per ritrovare la tradizione moderata E il cambiamento di una parte non può non pesare sull’altra
Ifatti di Washington parlano direttamente alla politica italiana. Quattro anni di trumpismo hanno plasmato anche il modo di essere della nostra destra e (per contrapposizione) della nostra sinistra, ora entrambe di fronte a un impegnativo cambio di stagione, a prescindere da dove ci condurranno le attuali ambasce di Conte e dei suoi alleati. Perché qui non è in ballo la tattica dei prossimi mesi, siano essi di campagna elettorale o meno: ma la strategia (e l’identità) dei prossimi anni. La crisi dell’ormai ex presidente americano, messo all’indice da social network e comunità internazionale e a rischio di incriminazione, ridefinisce tutto e tutti.
Dunque, sembra subito chiamata in causa la quota sovranista e maggioritaria del centrodestra, essendo l’ascesa di Matteo Salvini e Giorgia Meloni coincisa così tanto con gli anni e gli slogan di Trump da apparirne talvolta una filiazione europea. Il leader leghista, che ha cavalcato nelle nostre periferie la narrativa dei forgotten men (i dimenticati) enfatizzandola contro i migranti, si è talmente sbilanciato nella campagna elettorale Usa e nelle polemiche successive da guadagnarsi su qualche testata straniera il beffardo titolo di «cheerleader di Trump». La giovane presidente di Fratelli d’Italia s’è, per la sua parte, accreditata con tenacia negli ambienti conservatori di Washington, ripetendo dal ruggente sovranismo trumpiano le maggiori opzioni politiche e, ancora di recente, mettendo in dubbio la legittimità della prossima presidenza Biden.
Di fronte all’assalto di Capitol Hill, hanno entrambi dribblato a caldo le responsabilità del presidente uscente, condannando gli aggressori ma non il loro ispiratore. La Meloni, che gli aveva attribuito in un tweet solo l’ultima parte del messaggio («tornate a casa in pace») omettendone l’appello all’insurrezione, è stata per giorni impegnata in una polemica aspra e priva di ripensamenti
Prospettive Non è in ballo la tattica dei prossimi mesi, ma la strategia (e l’identità) dei prossimi anni
contro chi le aveva rimproverato tanta timidezza: «i condannatori di violenza un tanto al chilo». Tuttavia la sua ultima sortita di ieri, un intervento in memoria di sir Roger Scruton a un anno dalla sua scomparsa, può essere letto come un segnale politico più accorto o almeno la spia di una riflessione più pacata: il guru dei conservatori europei spiegava infatti sin dal 2017 come il trumpismo fosse puro opportunismo e Trump non avesse «alcun pensiero più lungo di 140 caratteri». Salvini ha invece mostrato ancora un ultimo sussulto di solidarietà verso The Donald, iscrivendosi con un caloroso «love from Italy» a appena prima che la piattaforma sovranista, su cui s’era rifugiato il presidente in rotta, fosse oscurata.
In questo scenario Silvio Berlusconi si staglia per indipendenza di pensiero e afflato europeista. Che la vergogna di Capitol Hill sia davvero «il Muro di Berlino dei sovranisti», come sostiene il direttore del Giornale,
Alessandro Sallusti, o che ne sia solo una pesante battuta d’arresto, la destra avrebbe l’occasione di ritrovare una trazione moderata, liberandosi delle scorie dell’estremismo e ponendosi come trincea costituzionale e repubblicana contro le derive populiste, da qualsiasi parte vengano. Questo potrebbe comportare forse un riassetto che influirà molto nei mesi a venire.
Il cambiamento di una parte, tuttavia, non può non pesare sull’altra: per paradosso, democratici e riformisti sono chiamati a un mutamento di passo non meno impegnativo. Non basta (e forse non serve) dare dei barbari ai barbari che hanno invaso il Congresso americano. Il trumpismo non è nato su Marte ma dai mali di una società che s’era illusa di essere giunta alla fine della storia col trionfo degli animal spirits del capitalismo. Le sue istanze sono generate dalla sperequazione tra reddito da lavoro e rendita finanziaria, dall’invisibilità di troppi, dalla delocalizzazione, dalla globalizzazione non gestita. Ha il suo antefatto, come scrive Sandro Modeo, dentro la rabbia degli anni Novanta negli Stati del Sud e del Midwest, nell’impoverimento di massa, nella rovina di un milione e mezzo di aziende agricole familiari in vent’anni, nella crisi di rappresentanza.
I forgotten men Trump non se li è inventati, li ha trovati (anche se è paradossale che essi si siano allineati dietro un tycoon newyorkese figlio del privilegio). Così come Salvini non si è inventato i ghetti italiani terrorizzati dall’immigrazione fuori controllo, li ha trovati e ne ha fatto un serbatoio di voti. Solo se democratici e riformisti sapranno affrontare il dolore di una società ulteriormente impoverita dal Covid-19 rispetto all’ascesa di Trump, potranno archiviare davvero il sovranismo che, altrimenti, risorgerà sotto altre spoglie, magari persino più aggressive. In Italia, il centrosinistra parte a marcia indietro, con una surreale polemica interna contro Fabrizio Barca. L’economista, già fustigatore dei circoli romani del Pd, viene tacciato di giustificazionismo degli invasori di Capitol Hill per il sol fatto di avere ricordato come causa del disastro un’ovvietà: le «diseguaglianze» patite dal popolo americano. C’è chi gli ha scagliato contro addirittura i nostri anni di piombo e il loro uso distorto della parola «popolo». Beh, nessuno giustifica i barbari passati, presenti e futuri. Ma non capire che tra le due coste americane c’è un popolo vero e sofferente, così come si trova nelle periferie italiane ed europee degli scartati e degli invisibili, significa proprio voler ripetere sempre gli stessi errori degli ultimi anni. Paul Taggart scriveva che «il populismo riempie un cuore vuoto». Una destra costituzionale e una sinistra riformista devono riempire e scaldare quel cuore. Forse rubando qualcosa persino a Donald Trump, per esorcizzarne lo spettro, finalmente.