Indagato il sindaco di Cinisi a cui fu assegnata
Il paradosso della casa confiscata a Badalamenti Il figlio ai pm: la rivoglio
Si sviluppa in tre tempi un paradosso antimafia che ha per sfondo quei «cento passi» di Cinisi dove don Tano Badalamenti fece uccidere Peppino Impastato. Prima, l’Agenzia dei beni sequestrati alla mafia affida al Comune un tempo dominato da Cosa nostra un vasto immobile del «don Tano Seduto» sbeffeggiato dalle onde di RadioAut.
Poi, il nuovo sindaco, Giangiacomo Palazzolo, avvocato di parte civile in processi di mafia, ottiene per questo grande caseggiato un finanziamento europeo da 400 mila euro. Spende, ristruttura tutto e decide di affidarne una parte a Casa Memoria per mostre e incontri legati all’impegno civile di amici e familiari di Peppino. Ma, quando gli operai smontano le impalcature e tutto è pronto, ecco sbucare fuori il figlio di «don Tano», Leonardo Badalamenti, 60 anni. E che fa, nonostante sia considerato latitante dalla magistratura brasiliana per traffico di stupefacenti? Va al Comune e chiede a Palazzolo le chiavi dell’immobile contestando il passaggio. E sbandierando una sentenza a lui favorevole. Roba dell’estate scorsa quando la Dia chiuse momentaneamente la partita arrestando l’attempato rampollo.
Tornato in libertà, sostiene però che quella sentenza sia eseguibile. Al contrario del sindaco: «Mai notificata né a me, né agli uffici comunali». Di qui una denuncia di Badami lamenti contro il sindaco, schierato così contro la più eccellente delle famiglie locali. In Procura, a Palermo, ne hanno preso atto. Non la Direzione antimafia, ma un sostituto che si occupa di materie ordinarie, aprendo un fascicolo contro il sindaco e chiedendo ai carabinieri di Cinisi di interrogarlo «come persona nei cui confronti vengono svolte indagini», stando alla dicitura del verbale redatto ieri.
In paese, lungo quei «cento passi», non si parla d’altro anche perché chi rimpiange i vecchi tempi gongola. «Si ridacchia all’idea che un Badalamenti abbia portato in caserma il sindaco deciso a stare dalla parte dello Stato», commenta il primo cittadino, avvilito e arrabbiato.
È uno sfogo accorato: «La Procura mi fa umiliare davanti ai miei cittadini. Il figlio di “don Tano” entra ed esce dalla caserma come uno specchiato cittadino, mentre io che ho utilizzato un bene dallo Stato assegnato al Comune, dopo avere speso i fondi europei,
ritrovo a dovermi difendere...». Sfogo condiviso con il suo avvocato, Aldo Ruffino, un altro penalista che a Cinisi fa il vicesindaco, sbalordito: «Qui proviamo a cambiare le cose e la mentalità trovandoci poi nel mezzo fra magistrati che ci incoraggiano e altri che ci indagano...».
Atti dovuti, sussurrano in Procura a Palermo. Ma il corto circuito fa saltare ogni certezza nella città dei «cento passi». Anche perché, come ribadisce Palazzolo, «nessuno al municipio si sarebbe sognato di ristrutturare un immobile se non fosse stato consegnato dall’Agenzia dei beni sequestrati...».
Un bel rompicapo. Complicato da un verbale che il sindaco mostra con amarezza perché, fra le domande poste in caserma, si legge che «viene escusso» anche «in relazione alle dichiarazioni rilasciate agli organi di stampa in merito alla volontà di non rilasciare il bene». Quasi a contestare a un sindaco di parlare con i media su una materia rovente.