Togliatti «socialtraditore»
Paolo Franchi: il Pci dopo la guerra finì per seguire le orme del riformista Turati
Alle elezioni per la Camera del 1919, a suffragio universale maschile con il sistema proporzionale, il Partito socialista ottenne la maggioranza relativa, con il 32,3 per cento. La lista fascista presentata a Milano raggranellò invece un pugno di voti e Benito Mussolini fece una clamorosa figuraccia. Tre anni dopo però il leader delle camicie nere diventava capo del governo, con i marxisti italiani spaccati in tre formazioni diverse (massimalisti, riformisti, comunisti) e visibilmente allo sbando. Come era stato possibile?
Il fatto è che la linea oltranzista adottata dal Psi, nell’illusione di imitare l’esempio dei bolscevichi russi, aveva di fatto impedito ai socialisti di fare politica, sterilizzando i loro seggi parlamentari in un atteggiamento di opposizione pregiudiziale e vociante non solo ai governi, ma allo stesso sistema rappresentativo, in attesa di una rivoluzione al posto della quale era arrivata a travolgerli la micidiale reazione dello squadrismo.
Quell’amarissima lezione era ben presente a Palmiro Togliatti, quando il leader del Pci tornò in patria nel 1944 dopo l’esilio impostogli dal fascismo. E sin dall’inizio ebbe come assillo principale inserire il suo partito nel gioco politico, conferirgli un ruolo di responsabilità nazionale, aprirlo a strati sociali diversi dal proletariato industriale e agricolo, portarlo al dialogo con le altre forze e con la Chiesa cattolica. Tutto l’opposto, a ben vedere, delle premesse su cui il Partito comunista d’Italia era nato a Livorno nel gennaio 1921, scindendosi dal Psi, cioè con l’intento di costituire una compatta falange rivoluzionaria capace di guidare la classe operaia alla conquista del potere.
Per giunta — questo è il dato fondamentale da cui parte Paolo Franchi nel suo bel libro Il Pci e l’eredità di Turati (La nave di Teseo) — nel Congresso di cento anni fa a contrapporsi erano state tre correnti, ma solo due linee politiche chiare. Da una parte c’erano i comunisti, determinati a staccarsi da chi predicava l’insurrezione, ma non faceva nulla per attuarla; dall’altra i riformisti guidati dal loro leader storico Filippo Turati, convinti che l’esperienza russa fosse inapplicabile in Italia e che la via al socialismo dovesse essere graduale e passare attraverso gli istituti della democrazia parlamentare. In mezzo i massimalisti, ampiamente maggioritari e indecisi a tutto, persi nel sogno della rivoluzione, ma indisponibili ad espellere l’ala destra del partito, come reclamava da Mosca l’Internazionale comunista.
Accadde così che Togliatti, argomenta Franchi, dovendo fare politica nell’Italia repubblicana ed evitare ad ogni costo l’isolamento del Pci, si trovò a ripercorrere per molti versi le orme di Turati, a suo tempo bollato d’infamia come «socialtraditore», che del resto era sempre rimasto marxista e non aveva mai abbandonato sul piano teorico l’obiettivo di superare il capitalismo.
Questo non significa tuttavia che i comunisti italiani fossero di fatto socialdemocratici, perché nel loro comportamento rimaneva una forte componente di doppiezza. Che non consisteva però nel praticare la democrazia borghese preparando la rivoluzione: Togliatti combatté sempre le tendenze sovversive presenti nel partito, andò personalmente in Emilia a ordinare che cessassero le azioni violente di ex partigiani. Il vero punto è che militanti e dirigenti del Pci, scrive Franchi, vivono per lunghi anni «una sorta di doppia appartenenza, all’Italia democratica di cui sono tra i fondatori e al campo comunista di cui sono tra i membri più prestigiosi, con tutto quello che ne deriva». Fedelissimi all’Urss, pronti ad accusare il reprobo Tito di tradimento e ad approvare le forche di Praga, si destreggiavano acrobaticamente fra Turati e Stalin.
Il mito dell’Urss è stato una delle più colossali fake news propalate nel XX secolo. Ma era per molti versi funzionale alla politica «turatiana» di Togliatti, «perché — osserva Franchi — l’esistenza stessa dell’Unione Sovietica, e il suo mito, gli hanno consentito di dislocare la rivoluzione nel tempo, in un futuro lontano e imprecisato, e nello spazio, a Mosca». Anche così si spiega la solerzia del segretario comunista nell’approvare l’invasione dell’Ungheria, che del resto lui stesso aveva riservatamente sollecitato presso il Cremlino nel 1956.
Solo che a partire dagli anni Sessanta quell’ambiguità non è più sostenibile. L’Urss della stagnazione, che schiaccia il tentativo innovatore del cecoslovacco Alexander Dubcek nel 1968, non può essere più un modello. Perciò Enrico Berlinguer, segretario dal 1972, rilancia con audacia la linea dell’accordo unitario con i democristiani, punta al «compromesso storico». E anche qui Franchi indica un precedente targato Turati, l’intervista con cui il leader riformista aveva proposto un’alleanza al Partito popolare (predecessore della Dc) nel 1924. A firmare il colloquio era stato in quell’occasione Carlo Silvestri, giornalista riformista che poi si sarebbe inopinatamente avvicinato al Mussolini disperato di Salò. E colpisce che lo stesso Silvestri nel 1946, mentre i primi periodici neofascisti lo portavano già in palmo di mano, elogiasse nel rievocare quell’episodio la «superiore intelligenza politica» di Togliatti, in quanto fautore del dialogo tra marxisti e cattolici.
Solo che il compromesso storico non va in porto, il Pci esce malconcio dall’esperienza della solidarietà nazionale, comincia il
Dopo il 1944 la priorità del segretario comunista fu legittimare il partito ed evitarne l’isolamento
duro duello a sinistra con il Psi di Bettino Craxi. Berlinguer si spinge allora più avanti nel rigetto del filosovietismo, dichiara esaurita la «spinta propulsiva» della rivoluzione d’Ottobre. Ma non intende ripiegare sulla socialdemocrazia, vagheggia ancora il superamento del capitalismo, imprime un connotato «morale» alla residua «diversità comunista». Non solo per rassicurare la base, sottolinea Franchi, ma perché crede sinceramente all’ipotesi della «terza via».
L’autore boccia giustamente come assurdo ogni richiamo a Berlinguer da parte dei populisti di oggi. Sostiene piuttosto che il segretario comunista si ritrovò involontariamente sul sentiero del vecchio massimalismo, pronto a «invocare la combattività delle masse», mai capace «di indicare loro obiettivi realistici e concreti». Turati scomparve così dall’orizzonte. Ma il guaio è che «di massimalismo i partiti muoiono». Come accadde al Pci dopo la scomparsa di Berlinguer.