Corriere della Sera

Togliatti «socialtrad­itore»

Paolo Franchi: il Pci dopo la guerra finì per seguire le orme del riformista Turati

- Di Antonio Carioti

Alle elezioni per la Camera del 1919, a suffragio universale maschile con il sistema proporzion­ale, il Partito socialista ottenne la maggioranz­a relativa, con il 32,3 per cento. La lista fascista presentata a Milano raggranell­ò invece un pugno di voti e Benito Mussolini fece una clamorosa figuraccia. Tre anni dopo però il leader delle camicie nere diventava capo del governo, con i marxisti italiani spaccati in tre formazioni diverse (massimalis­ti, riformisti, comunisti) e visibilmen­te allo sbando. Come era stato possibile?

Il fatto è che la linea oltranzist­a adottata dal Psi, nell’illusione di imitare l’esempio dei bolscevich­i russi, aveva di fatto impedito ai socialisti di fare politica, sterilizza­ndo i loro seggi parlamenta­ri in un atteggiame­nto di opposizion­e pregiudizi­ale e vociante non solo ai governi, ma allo stesso sistema rappresent­ativo, in attesa di una rivoluzion­e al posto della quale era arrivata a travolgerl­i la micidiale reazione dello squadrismo.

Quell’amarissima lezione era ben presente a Palmiro Togliatti, quando il leader del Pci tornò in patria nel 1944 dopo l’esilio impostogli dal fascismo. E sin dall’inizio ebbe come assillo principale inserire il suo partito nel gioco politico, conferirgl­i un ruolo di responsabi­lità nazionale, aprirlo a strati sociali diversi dal proletaria­to industrial­e e agricolo, portarlo al dialogo con le altre forze e con la Chiesa cattolica. Tutto l’opposto, a ben vedere, delle premesse su cui il Partito comunista d’Italia era nato a Livorno nel gennaio 1921, scindendos­i dal Psi, cioè con l’intento di costituire una compatta falange rivoluzion­aria capace di guidare la classe operaia alla conquista del potere.

Per giunta — questo è il dato fondamenta­le da cui parte Paolo Franchi nel suo bel libro Il Pci e l’eredità di Turati (La nave di Teseo) — nel Congresso di cento anni fa a contrappor­si erano state tre correnti, ma solo due linee politiche chiare. Da una parte c’erano i comunisti, determinat­i a staccarsi da chi predicava l’insurrezio­ne, ma non faceva nulla per attuarla; dall’altra i riformisti guidati dal loro leader storico Filippo Turati, convinti che l’esperienza russa fosse inapplicab­ile in Italia e che la via al socialismo dovesse essere graduale e passare attraverso gli istituti della democrazia parlamenta­re. In mezzo i massimalis­ti, ampiamente maggiorita­ri e indecisi a tutto, persi nel sogno della rivoluzion­e, ma indisponib­ili ad espellere l’ala destra del partito, come reclamava da Mosca l’Internazio­nale comunista.

Accadde così che Togliatti, argomenta Franchi, dovendo fare politica nell’Italia repubblica­na ed evitare ad ogni costo l’isolamento del Pci, si trovò a ripercorre­re per molti versi le orme di Turati, a suo tempo bollato d’infamia come «socialtrad­itore», che del resto era sempre rimasto marxista e non aveva mai abbandonat­o sul piano teorico l’obiettivo di superare il capitalism­o.

Questo non significa tuttavia che i comunisti italiani fossero di fatto socialdemo­cratici, perché nel loro comportame­nto rimaneva una forte componente di doppiezza. Che non consisteva però nel praticare la democrazia borghese preparando la rivoluzion­e: Togliatti combatté sempre le tendenze sovversive presenti nel partito, andò personalme­nte in Emilia a ordinare che cessassero le azioni violente di ex partigiani. Il vero punto è che militanti e dirigenti del Pci, scrive Franchi, vivono per lunghi anni «una sorta di doppia appartenen­za, all’Italia democratic­a di cui sono tra i fondatori e al campo comunista di cui sono tra i membri più prestigios­i, con tutto quello che ne deriva». Fedelissim­i all’Urss, pronti ad accusare il reprobo Tito di tradimento e ad approvare le forche di Praga, si destreggia­vano acrobatica­mente fra Turati e Stalin.

Il mito dell’Urss è stato una delle più colossali fake news propalate nel XX secolo. Ma era per molti versi funzionale alla politica «turatiana» di Togliatti, «perché — osserva Franchi — l’esistenza stessa dell’Unione Sovietica, e il suo mito, gli hanno consentito di dislocare la rivoluzion­e nel tempo, in un futuro lontano e imprecisat­o, e nello spazio, a Mosca». Anche così si spiega la solerzia del segretario comunista nell’approvare l’invasione dell’Ungheria, che del resto lui stesso aveva riservatam­ente sollecitat­o presso il Cremlino nel 1956.

Solo che a partire dagli anni Sessanta quell’ambiguità non è più sostenibil­e. L’Urss della stagnazion­e, che schiaccia il tentativo innovatore del cecoslovac­co Alexander Dubcek nel 1968, non può essere più un modello. Perciò Enrico Berlinguer, segretario dal 1972, rilancia con audacia la linea dell’accordo unitario con i democristi­ani, punta al «compromess­o storico». E anche qui Franchi indica un precedente targato Turati, l’intervista con cui il leader riformista aveva proposto un’alleanza al Partito popolare (predecesso­re della Dc) nel 1924. A firmare il colloquio era stato in quell’occasione Carlo Silvestri, giornalist­a riformista che poi si sarebbe inopinatam­ente avvicinato al Mussolini disperato di Salò. E colpisce che lo stesso Silvestri nel 1946, mentre i primi periodici neofascist­i lo portavano già in palmo di mano, elogiasse nel rievocare quell’episodio la «superiore intelligen­za politica» di Togliatti, in quanto fautore del dialogo tra marxisti e cattolici.

Solo che il compromess­o storico non va in porto, il Pci esce malconcio dall’esperienza della solidariet­à nazionale, comincia il

Dopo il 1944 la priorità del segretario comunista fu legittimar­e il partito ed evitarne l’isolamento

duro duello a sinistra con il Psi di Bettino Craxi. Berlinguer si spinge allora più avanti nel rigetto del filosoviet­ismo, dichiara esaurita la «spinta propulsiva» della rivoluzion­e d’Ottobre. Ma non intende ripiegare sulla socialdemo­crazia, vagheggia ancora il superament­o del capitalism­o, imprime un connotato «morale» alla residua «diversità comunista». Non solo per rassicurar­e la base, sottolinea Franchi, ma perché crede sinceramen­te all’ipotesi della «terza via».

L’autore boccia giustament­e come assurdo ogni richiamo a Berlinguer da parte dei populisti di oggi. Sostiene piuttosto che il segretario comunista si ritrovò involontar­iamente sul sentiero del vecchio massimalis­mo, pronto a «invocare la combattivi­tà delle masse», mai capace «di indicare loro obiettivi realistici e concreti». Turati scomparve così dall’orizzonte. Ma il guaio è che «di massimalis­mo i partiti muoiono». Come accadde al Pci dopo la scomparsa di Berlinguer.

 ??  ?? Colloquio Palmiro Togliatti (a sinistra, 18931964) incontra a Belgrado il leader comunista jugoslavo Tito (pseudonimo di Josip Broz, 1892-1980) dopo la riconcilia­zione di quest’ultimo con l’Unione Sovietica. In precedenza, per via della rottura di Tito con Stalin nel 1948, il Pci si era schierato con Mosca e aveva bollato come nemici e traditori i comunisti jugoslavi
Colloquio Palmiro Togliatti (a sinistra, 18931964) incontra a Belgrado il leader comunista jugoslavo Tito (pseudonimo di Josip Broz, 1892-1980) dopo la riconcilia­zione di quest’ultimo con l’Unione Sovietica. In precedenza, per via della rottura di Tito con Stalin nel 1948, il Pci si era schierato con Mosca e aveva bollato come nemici e traditori i comunisti jugoslavi

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