SCUOLE E ATENEI CHIUSI, NON SI CALCOLA IL DANNO PER GLI STUDENTI
Mai come nel corso del 2020 scuole e università, a causa della pandemia, sono state al centro del dibattito nazionale. Eppure, ancora una volta, l’attenzione è stata catturata soprattutto da temi perfettamente in linea con la «ragione calculatoria» ed economicistica che ormai da anni governa ogni aspetto della vita sociale e culturale. Basta rileggere giornali e riascoltare radio e tv per cogliere in filigrana le stesse preoccupazioni: dalle elementari all’università le esigenze e i diritti degli studenti sono passati in second’ordine rispetto agli imperativi dei genitori (come possono lavorare in casa con i figli che occupano spazi e postazioni Internet?) o agli interessi commerciali fioriti intorno a istituti secondari e atenei (come ripopolare, per esempio, quelle città che vivono soprattutto della presenza studentesca?). Ma non c’è stata una seria discussione sulle vere conseguenze disastrose che la chiusura di scuole e università avrà sulle vite di milioni di studenti e, inevitabilmente, sul futuro del Paese. Come recuperare le ore perdute di lezioni in presenza e come ricostruire la rete di rapporti umani con compagni e professori dopo quasi un anno di «isolamento»? Come immaginare un ritorno alla «normalità» dopo una lunga assenza che ha aumentato la dipendenza da computer e dispositivi? E favorire un riequilibrio in cui il virtuale venga ridimensionato rispetto alla vita reale? Scuole e università hanno una funzione essenziale nella formazione: senza l’esperienza comunitaria viene meno una delle componenti fondamentali della crescita umana e culturale. Riportare, in sicurezza, gli studenti negli istituti e negli atenei è una priorità come quella di tenere aperti gli ospedali. Anche noi professori, come i medici, abbiamo una missione da assolvere. Il diritto alla vita e il diritto alla conoscenza sono due pilastri della dignità umana!