LA NEBBIA NEL PALAZZO
Nel momento più drammatico della storia recente, un grande Paese si unisce, non si divide. Si apre, non si arrocca. Chiama al potere e alla responsabilità le sue donne e i suoi uomini migliori, non si incatena a quelli scelti in una stagione che sembra lontanissima. Nell’emergenza, la maggioranza di governo tende ad allargarsi, non a restringersi. I leader puntano a coinvolgere, non a difendere a ogni costo il proprio tornaconto.
Mai la nebbia che tradizionalmente separa il Palazzo e la piazza è stata così fitta. Mai la distanza tra le preoccupazioni della politica e quelle delle persone è stata tanto ampia. E mai le formule sono state così lontane dalla sensibilità della gente comune.
Conte ter, Responsabili, governo istituzionale, governo ponte… Una democrazia parlamentare ha le sue tecnicalità, che vanno rispettate. La nostra Costituzione, del resto, è ancora quella della Repubblica dei partiti; ma i partiti sono scomparsi, e con loro una cultura e una selezione della classe dirigente; i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non è vero che i cittadini non si interessano alla politica. Anzi, più che mai vorrebbero sapere. Essere informati e sostenuti.
Non chiedono solo doverosi risarcimenti; chiedono di conoscere come saranno spesi i soldi europei, come si pensa di rendere produttivi gli investimenti pubblici, come le risorse arriveranno alle imprese, come si creerà lavoro per i giovani. Purtroppo non è di questo che si discute a Palazzo.
Nel discorso pubblico, il cattivo è già stato individuato in Matteo Renzi: la sua popolarità, già bassa, è al minimo storico. In effetti, se Renzi non ha avuto torto a porre il tema del Recovery plan, all’evidenza ha sbagliato i tempi della crisi, che risulta incomprensibile con il virus che risale e il piano di vaccinazione appena all’inizio. Ma quando un’alleanza va in frantumi, non c’è mai un solo colpevole. Il Pd ha dato l’impressione di mandare avanti Italia viva, forse pensando che si sarebbe fermata in tempo. E Giuseppe Conte ha creduto troppo a lungo di poter procedere da solo, o al più con un pugno di fedelissimi, nessuno dei quali forte di un’investitura popolare. Mentre Salvini e Meloni, insistendo a chiedere un voto anticipato difficilissimo da organizzare, finiscono paradossalmente per dare una mano alla maggioranza traballante, cui guardano molti parlamentari che sull’esempio di Razzi rinuncerebbero malvolentieri a dodici mila euro al mese.
Ma l’impressione — con il ritorno della Lombardia in zona rossa — è che le traversie della politica appassionino davvero poco l’opinione pubblica. Troppa è la preoccupazione per i prossimi mesi. Sulla paura della morte, che aveva segnato il primo lockdown, prevale ora la paura della povertà. I continui cambiamenti di regole, che rendono precari il commercio e la scuola, i servizi e la ristorazione, i viaggi e i rapporti familiari, provocano rabbia e insofferenza. Nello stesso tempo, c’è una forte richiesta di protezione: sanitaria, economica, sociale. La pandemia non ha scatenato le temute rivolte; anzi, ha suscitato una sorta di ritorno all’ordine. Dalle elezioni regionali è emersa una forte domanda di stabilità, con la netta vittoria dei governatori uscenti, indipendentemente dal loro colore. A livello nazionale, la destra resta in vantaggio nei sondaggi, e certo vincerebbe eventuali elezioni anticipate. Ma, più che il voto subito, gli italiani chiedono una prospettiva certa per uscire dall’emergenza, un percorso che consenta di tappare le falle e porre le premesse per la ricostruzione. Se da questa crisi uscirà un governo migliore, in grado di offrire garanzie sia ai cittadini sia agli alleati europei che ci hanno aperto una linea di credito, questi giorni affannosi saranno serviti a qualcosa. Altrimenti alla classe politica — tutta intera — deriverà un discredito da cui le sarà difficilissimo riprendersi.