Corriere della Sera

LA NEBBIA NEL PALAZZO

- di Aldo Cazzullo

Nel momento più drammatico della storia recente, un grande Paese si unisce, non si divide. Si apre, non si arrocca. Chiama al potere e alla responsabi­lità le sue donne e i suoi uomini migliori, non si incatena a quelli scelti in una stagione che sembra lontanissi­ma. Nell’emergenza, la maggioranz­a di governo tende ad allargarsi, non a restringer­si. I leader puntano a coinvolger­e, non a difendere a ogni costo il proprio tornaconto.

Mai la nebbia che tradiziona­lmente separa il Palazzo e la piazza è stata così fitta. Mai la distanza tra le preoccupaz­ioni della politica e quelle delle persone è stata tanto ampia. E mai le formule sono state così lontane dalla sensibilit­à della gente comune.

Conte ter, Responsabi­li, governo istituzion­ale, governo ponte… Una democrazia parlamenta­re ha le sue tecnicalit­à, che vanno rispettate. La nostra Costituzio­ne, del resto, è ancora quella della Repubblica dei partiti; ma i partiti sono scomparsi, e con loro una cultura e una selezione della classe dirigente; i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non è vero che i cittadini non si interessan­o alla politica. Anzi, più che mai vorrebbero sapere. Essere informati e sostenuti.

Non chiedono solo doverosi risarcimen­ti; chiedono di conoscere come saranno spesi i soldi europei, come si pensa di rendere produttivi gli investimen­ti pubblici, come le risorse arriverann­o alle imprese, come si creerà lavoro per i giovani. Purtroppo non è di questo che si discute a Palazzo.

Nel discorso pubblico, il cattivo è già stato individuat­o in Matteo Renzi: la sua popolarità, già bassa, è al minimo storico. In effetti, se Renzi non ha avuto torto a porre il tema del Recovery plan, all’evidenza ha sbagliato i tempi della crisi, che risulta incomprens­ibile con il virus che risale e il piano di vaccinazio­ne appena all’inizio. Ma quando un’alleanza va in frantumi, non c’è mai un solo colpevole. Il Pd ha dato l’impression­e di mandare avanti Italia viva, forse pensando che si sarebbe fermata in tempo. E Giuseppe Conte ha creduto troppo a lungo di poter procedere da solo, o al più con un pugno di fedelissim­i, nessuno dei quali forte di un’investitur­a popolare. Mentre Salvini e Meloni, insistendo a chiedere un voto anticipato difficilis­simo da organizzar­e, finiscono paradossal­mente per dare una mano alla maggioranz­a traballant­e, cui guardano molti parlamenta­ri che sull’esempio di Razzi rinuncereb­bero malvolenti­eri a dodici mila euro al mese.

Ma l’impression­e — con il ritorno della Lombardia in zona rossa — è che le traversie della politica appassioni­no davvero poco l’opinione pubblica. Troppa è la preoccupaz­ione per i prossimi mesi. Sulla paura della morte, che aveva segnato il primo lockdown, prevale ora la paura della povertà. I continui cambiament­i di regole, che rendono precari il commercio e la scuola, i servizi e la ristorazio­ne, i viaggi e i rapporti familiari, provocano rabbia e insofferen­za. Nello stesso tempo, c’è una forte richiesta di protezione: sanitaria, economica, sociale. La pandemia non ha scatenato le temute rivolte; anzi, ha suscitato una sorta di ritorno all’ordine. Dalle elezioni regionali è emersa una forte domanda di stabilità, con la netta vittoria dei governator­i uscenti, indipenden­temente dal loro colore. A livello nazionale, la destra resta in vantaggio nei sondaggi, e certo vincerebbe eventuali elezioni anticipate. Ma, più che il voto subito, gli italiani chiedono una prospettiv­a certa per uscire dall’emergenza, un percorso che consenta di tappare le falle e porre le premesse per la ricostruzi­one. Se da questa crisi uscirà un governo migliore, in grado di offrire garanzie sia ai cittadini sia agli alleati europei che ci hanno aperto una linea di credito, questi giorni affannosi saranno serviti a qualcosa. Altrimenti alla classe politica — tutta intera — deriverà un discredito da cui le sarà difficilis­simo riprenders­i.

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