Quando lo Stato conta più delle Regioni
Pochi se ne sono accorti. L’ordinanza della Corte costituzionale del 14 gennaio scorso non ha solo sospeso l’efficacia della legge della Valle d’Aosta.
Una legge che consente attività economiche e sociali in deroga alla normativa statale sulla pandemia, accogliendo la richiesta del presidente del Consiglio dei ministri. Ha anche stabilito che «la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera q, Cost.». Una affermazione di principio che la Corte non potrà non tener ferma il 23 febbraio, quando prenderà la decisione sul merito della questione.
Questo importa che la strada imboccata dallo Stato fin dal marzo scorso è sbagliata. Gli interventi resi necessari dalla pandemia non rientrano tra quelli nei quali Stato e Regioni si spartiscono i compiti, ma tra quelli che spettano esclusivamente al governo, con cui le Regioni debbono collaborare. Il governo ne esce ancor più colpito della piccola regione Valle d’Aosta. Dovrà ora reimpostare tutta la sua strategia. Con un anno di ritardo ci accorgiamo che un fenomeno mondiale non può essere fronteggiato dividendosi. Il pluralismo anti-pandemia è una contraddizione in termini. Meglio tardi che mai, possiamo dire. Anche perché questo è un altro segno del nuovo corso, inaugurato lo scorso anno dalla Corte costituzionale, che pare aver riscoperto il coraggio che ebbero i suoi primi componenti. Le sentenze della Corte riguardano leggi che toccano tutti: quindi, è stata giusta l’introduzione, nel febbraio 2020, del diritto di intervenire anche di chi non è parte in causa. La Corte costituzionale non è soltanto un giudice (la Costituzione non la disciplina tra le norme sull’ordine giudiziario): quindi è stato giusto ricorrere — come ha fatto nei giorni scorsi — al potere di prendere l’iniziativa, sollevando dinanzi a sé stessa una questione di costituzionalità (quella della assegnazione del nome paterno al figlio naturale). Troppe sono le lesioni, elusioni, erosioni delle regole costituzionali perché la Corte possa svolgere la sua funzione di correzione soltanto con le sentenze: quindi è bene che colga altre occasioni per pronunciarsi.
Enrico Cuccia, in una lettera del 1965 a David Lilienthal (ora citata nello splendido libro di Giovanni Farese su «Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia», edito nei giorni scorsi da Mediobanca stessa) ha scritto: «Bernard Berenson disse una volta che gli italiani nel loro intimo sono politicamente atei, perché non credono alla possibilità del buon governo». Chi ha fiducia in un governo efficiente e non ama le troppo numerose infrazioni delle regole del gioco, vorrebbe avere, nel pieno rispetto dell’agenda e delle scelte politiche, se non un arbitro almeno un guardalinee. Benvenuto, quindi, il nuovo corso della Corte costituzionale.