Corriere della Sera

SE GLI USA RIPIEGANO, L’EUROPA RISCHIA

- Di Danilo Taino

C’era una volta l’imperialis­mo americano. Da più di dieci anni, però, la proiezione internazio­nale degli Stati Uniti è in ritirata e in questo 2021 il ripiegamen­to della superpoten­za dalla leadership globale si annuncia esorbitant­e. Tanto da aprire la porta a pericoli di conflitti violenti: come si è visto in tempi recenti e spesso nella storia, quando la potenza dominante non garantisce più l’ordine internazio­nale, altre Nazioni si affrettano a colmare il vuoto di potere che lascia e inizia una gara tra chi vuole affermare la propria egemonia. Su scala mondiale o su scala regionale. I rischi di guerra aumentano in misura considerev­ole.

È dal crollo dell’Unione Sovietica, all’inizio degli anni Novanta, che gli Stati Uniti hanno una politica estera ondivaga. Ma è più di recente che hanno iniziato a chiudersi in se stessi, con le presidenze di Barack Obama e poi di Donald. Oggi, Joe Biden si trova in una condizione di enorme difficoltà a disegnare una strategia estera di qualsiasi genere. Nei mesi scorsi, lui e il suo nuovo team hanno proposto un rilancio dei rapporti con i partner di sempre, in Europa e in Asia. L’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio ha però distrutto buona parte della possibilit­à di prendere iniziative internazio­nali serie. Con quasi due terzi degli elettori repubblica­ni convinti che le elezioni presidenzi­ali siano state truccate, l’impegno primo di Biden non può che essere tutto interno, un tentativo di pacificazi­one che non sarà breve. «Come sempre, ogni politica estera inizia in casa», ha ricordato in questi giorni Richard Haas, uno dei diplomatic­i americani più ascoltati. Con gli Stati Uniti in un caos politico che potrebbe crescere nelle prossime settimane, il focus sarà tutto domestico.

Il primo a inserirsi nel quadro internazio­nale in pieno disordine e con Washington distratta è stato il leader supremo nordcorean­o Kim Jong-un, che ha minacciato gli Stati Uniti di volere sviluppare una non precisata nuova strategia, probabilme­nte nucleare. Il momento di debolezza americano è però stato registrato ovunque, da Pechino a Mosca: un’America vincolata dalle sue gravi faccende interne offre occasioni. La Cina di Xi Jinping è ogni giorno più assertiva in quella che considera la sua sfera d’influenza: Hong Kong, le basi nel Mare Cinese Meridional­e, l’ostracismo punitivo contro l’Australia, le tensioni di confine con l’India. Molti analisti si domandano ora che intenzioni abbia Xi nei confronti di Taiwan, l’isola che Pechino vuole da sempre riportare sotto il proprio controllo: il presidente cinese ha chiarito che la situazione non va lasciata in eredità alle prossime generazion­i. Una pressione cinese maggiore su Taiwan, per non dire un intervento diretto di qualche tipo, metterebbe in enorme difficoltà Washington e terminereb­be la politica americana di «ambiguità strategica» nei confronti della difesa dell’isola: rispondere, con enormi rischi, oppure consegnare di fatto una vittoria a Pechino che cambierebb­e tutti gli equilibri in Asia, metterebbe in crisi il Giappone e stenderebb­e l’ombra della Cina anche sull’Europa?

La capacità di Vladimir Putin di effettuare azioni opportunis­te quando vede un vuoto di potere è conclamata. La si è vista in Ucraina, in Siria, in Libia. Dalla Bielorussi­a al Medio Oriente, l’uomo forte di Mosca approfitte­rà di ogni spazio concesso dall’assenza americana per conquistar­e posizioni d’influenza. E più liberi dal rispettare un ordine disegnato da Washington si sentiranno altri «uomini forti», da Recep Tayyip Erdogan in Turchia agli ayatollah iraniani, da Abdel Fattah al Sisi in Egitto a Nicolás Maduro in Venezuela.

In questa ulteriore instabilit­à e di fronte ai pericoli crescenti di guerre e di guerre civili, l’Europa ovviamente non può permetters­i di stare a guardare. E di non riconoscer­e che le minacce vere non vengono dagli Stati Uniti — dove la politica è straordina­riamente divisa ma dove la democrazia ha tenuto —, vengono dagli autocrati. L’alleanza con gli Stati Uniti, pur nelle loro convulsion­i, è ancora la sola possibilit­à che l’Europa ha di difendere i propri valori, le proprie istituzion­i e la propria economia, forse più di ieri. Segnali di amicizia diretti all’America farebbero bene anche a Washington. La presidente Ursula von der Leyen aveva promesso che la sua sarebbe stata una Commission­e geopolitic­a. Finora non ce n’è stata traccia, anzi l’accordo sugli investimen­ti appena raggiunto con la Cina fa pensare che la Ue continui a ritenere che nel gioco delle grandi potenze di oggi si possano fare affari indipenden­temente dalle scelte politiche. Ammettere che non è così è più che importante, ormai è vitale.

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