IL QUARTO POTERE DIGITALE: UNA REALTÀ (MA LE REGOLE?)
L’ANALISI SOCIAL NETWORK & MEDIA
Benvenuti nell’era del quarto potere digitale. Direbbe così Orson Welles e forse anche David Fincher regista di «Mank» che racconta come e in quale clima fu girato «Quarto potere». Quando democratici e repubblicani americani, ieri come oggi, sembravano impegnati in una grande partita a poker giocata sul tavolo dei media.
Un assaggio che qualcosa è davvero cambiato lo abbiamo avuto nei giorni scorsi negli Stati Uniti. Circola in Rete un meme con il profilo Twitter di un certo John Smith — l’equivalente statunitense del nostro Mario Rossi — con un improbabile Donald Trump con baffi che ci chiede amicizia sotto mentite spoglie. Sarebbe la mossa di The Donald alla chiusura del suo profilo Twitter da parte del proprietario fondatore Jack Dorsey, cui è seguita quella di Mark Zuckerberg su Facebook. Lo scherzo dei joker di Internet è legato all’impensabile notizia, sino a qualche mese fa, dell’intervento sugli account del Potus (President of the United States).
Hanno fatto bene i giganti del social a «bannare» Trump dopo l’evento storico dell’invasione di Capitol Hill, che ha imbarazzato l’America di fronte al mondo intero? Molti i sì, altrettanti e pesanti i no: da Angela Merkel al Commissario europeo
Thierry Breton.
Il potere dei media attanaglia da sempre le relazioni con la politica. Ma come al solito quando i media sono i social media e l’epoca è quella della rivoluzione digitale, il sapore prende una piega esplosiva a causa dei numeri e dell’impatto non più semplicemente domestico, ma transnazionale.
Negli Stati Uniti Obama riesce a vincere le elezioni con McCain nel 2006 anche grazie alla campagna guidata dai Millennial sui social: memorabile il video The Great Schlep della comica Sara Silverman che minaccia di non visitare più i nonni conservatori che si sono rifugiati nel paradiso dei pensionati americani in Florida se non votano per Obama. Nel Medio Oriente le primavere arabe sono figlie anche del web. Anche in Italia il fenomeno 5 Stelle si nutre di Rousseau e Blog delle Stelle.
Ma a fronte di questa euforia ben presto segue una disillusione. Sempre più frequentemente ci si rende conto che i motori di ricerca filtrano e possono guidare i comportamenti in Rete. Gli algoritmi possono esercitare una forma di controllo e danno voce ai più forti non in modo differente di quanto i vecchi media one-to-many facevano una volta. E i più forti diventano incontrollabili, oltreché invincibili.
In politica è emblematico lo scandalo di Cambridge Analytica, fattore importante nelle elezioni statunitensi del 2016, e il referendum per la Brexit nel Regno Unito nello stesso anno. Entrambi gli eventi evidenziano i bug del sistema che attraverso computer che simulano gli esseri umani (bot) possono portare a influenzare il voto delle persone.
Accade così che in Cina il partito comunista blocchi la quotazione in Borsa di Jack Ma, fondatore di Alibaba, che sembra diventare troppo visibile e influente rispetto al regime. O che l’ennesima serie di tweet provocatori di Trump, nei quali si asserisce senza prove che i dem abbiano «rubato» il voto, chieda una protesta di piazza. E la folla obbedisce. Il quarto potere digitale permette di inserirsi sugli smartphone, nelle nostre tasche, con messaggi personalizzati, spingendo a gesti irrazionali.
È evidente che la pervasività stessa dei social media non permette che possano essere dei privati a decidere chi può usare il megafono digitale e chi no. Ma al tempo stesso si pone il tema di come evitare che quel megafono venga utilizzato per violare leggi o provocare alterazioni al sistema democratico.
Di questa tensione tra libertà d’espressione e rispetto delle regole vivono le democrazie. Peccato che di regole non ce ne siano e che il quarto potere digitale si sia nutrito di questa assenza di regole per crescere. Chi è preposto a difendere gli interessi della collettività, che vanno dal potere ascoltare tutte le opinioni al non vedere messe a rischio le istituzioni, vale a dire la politica, reagisce a velocità inferiori a quelle della tecnologia e dei mercati. Ma è sempre stato così e soprattutto questo non può diventare un alibi.
Più volte abbiamo sottolineato come l’Europa debba cercare di tener alta la bandiera della regolamentazione, ma senza perdere tempo. Sfruttando l’elezione di Joe Biden e i timori manifestati dalla Cina nei confronti del web, non si vede come un tema del genere non possa immaginare un accordo transnazionale analogo a quanto fatto sul clima per Parigi, facendo leva peraltro sulla nuova sensibilità che sembrano finalmente porre al tema gli stessi giganti del web.
E nel frattempo? Occorre ragionare come si fa nel caso dei sistemi complessi, quale il web è, stimolando i princìpi di autoregolazione e auto-organizzazione. Ovvero coltivando senso di responsabilità degli utenti attivi ed educazione dei cittadini che passivamente seguono la Rete. Certo, difficile pensare che politici divisivi possano avere atteggiamenti diversi sul web. Ma se questo diventa istigazione a compiere reati, forse le regole già esistono.
Cosa sta facendo la politica per autoregolarsi su questi temi? Stiamo facendo abbastanza sforzi come istruzione e formatori dell’opinione pubblica per rafforzare lo spirito critico dei futuri cittadini e per renderli consapevoli della demagogia del web? Se cominciassimo a trovare risposte a queste domande, potremmo forse passare a una terza fase dell’impiego della Rete, quella di una società digitale matura.
Sempre più frequentemente ci si rende conto che i motori di ricerca filtrano e possono guidare i comportamenti