I 47 tennisti prigionieri del virus L’Australia si ribella: tornate a casa
«Ciao. Sfortunatamente una persona sul tuo volo per Melbourne è risultata positiva al Covid. Sarai in quarantena stretta, senza possibilità di allenarti, per 14 giorni».
Giocare a tennis con il coronavirus, di questi tempi, è un mestieraccio. 47 tennisti iscritti all’Australian Open (per ora nessun italiano), 24 sull’aereo proveniente da Los Angeles (79 passeggeri) e 23 sul volo da Abu Dhabi (64 passeggeri), sono in isolamento totale a Melbourne: hanno volato con un caso Covid (accertato quello di Sylvain Bruneau, coach di Bianca Andreescu). Sforare il budget del primo Slam stagionale di 80 milioni di dollari, organizzare 15 charter pieni al 20% per portare in Australia 1200 persone, obbligare tutti a un tampone negativo prima di imbarcarsi non è servito: a Melbourne è sbarcato il virus, i pacati aussie si stanno ribellando via social contro l’invasione decollata dall’epicentro del contagio (Europa e Stati Uniti) al grido di «via gli untori» e 47 giocatori, a loro volta, si ribellano contro la clausura imposta loro dal ministero della Salute.
«Impossibile andare in campo dopo due settimane sul divano dell’albergo» cinguetta furibonda la romena
Sorana Cirstea, prigioniera come Stephens, Azarenka, Pospisil, Cuevas, Nishikori, Pella e altri. «Di questa regola non ci avevano avvertiti: se l’avessi saputo, non sarei venuta» è il lamento della svizzera Belinda Bencic. E la belga Kristen Flipkens lancia il tormentone dei prossimi giorni: «Impossibile giocare l’Australian Open dall’8 febbraio: è necessario posticipare il torneo di una o due settimane». Insomma, il caos. Anche perché nel frattempo i migliori del mondo — da Djokovic a Nadal (con Jannik Sinner come sparring partner designato nelle 5 ore d’aria concesse al dì), da Thiem a Serena Williams — sono atterrati ad Adelaide per un’esibizione: possono allenarsi, sono ospitati in un residence extra lusso, godono di maggiori libertà (più persone nello staff al seguito), hanno postato una foto di gruppo in campo che ha fatto imbufalire i colleghi a Melbourne. Tutti contro tutti, la nuova specialità del tennis.
Benvenuti sul playground dello sport nell’era del coronavirus. L’enorme empasse in cui è precipitato lo Slam di
Melbourne (i risultati dei tamponi stanno ancora arrivando: non è escluso che la lista dei 47 reclusi si allunghi) sia di monito per tutti: per l’Europeo di calcio itinerante al via l’11 giugno a Roma con Italia-Turchia e per l’Olimpiade di Tokyo, se i vaccini non costringeranno la pandemia al ritiro si gareggerà nelle bolle e le bolle, come dimostrato, non sono impermeabili. Gli abitanti di Melbourne protestano con gli organizzatori dell’Australian Open («Annullate il torneo e rimandate tutti a casa»), i giapponesi non vogliono più i Giochi nella capitale spazzata da una nuova ondata di contagi. L’ipotesi di considerare gli atleti una categoria da vaccinare con urgenza scatenerebbe polemiche infinite: non tutti i club hanno la libertà d’azione di Uae Emirates, squadra del re del Tour Tadej Pogacar, che la settimana scorsa ad Abu Dhabi ha vaccinato 27 corridori e 32 persone dello staff.
L’Australian Open è un esperimento pilota che farà scuola. Dalle camere dei quarantenati, presidiate da guardie a ogni piano, arrivano via social foto di vassoietti con pasti ospedalizi, finestre che non si possono aprire, lamentele di ogni tipo: «Non mi vogliono dare nemmeno una cyclette!». Il doppista austriaco Phillipp Oswald, tra i 47 in quarantena stretta, si è sfogato con Tennisnet.com: «Il wifi è sovraccarico: non funziona. Ho chiesto un libro: mi hanno detto di no. E il paradosso: la mia stanza è affacciata sui campi da tennis. Vedo gli altri allenarsi per l’Australian Open, io non posso. Psicologicamente, è durissima».
Salvate il soldato Oswald, e gli ammutinati del virus.