Corriere della Sera

In Birmania la polizia spara sui giovani Morti e feriti

Decine di vittime. Gli Stati Uniti: «Repression­e abominevol­e»

- di Paolo Salom

Spari e morti in Myanmar, l’ex Birmania. La protesta anti golpe si trasforma in strage, decine i morti. L’Ue: «Agiremo». E gli Usa: «Repression­e abominevol­e».

Quindici secondi di un video girato di nascosto — poi postato su Twitter insieme a decine di altri — forniscono la brutale, scioccante realtà di un giorno di guerra tra civili disarmati da una parte, e poliziotti e soldati dall’altra.

La scena: Yangon, un tempo conosciuta come Rangoon, la città più grande del Myanmar (ex Birmania). Un viale grigio e deserto, immerso nella caligine dell’estate incipiente del Sud-Est asiatico. Un gruppo di uomini in uniforme si ferma. Un soldato si rivolge a un poliziotto e gli passa il proprio fucile. «Forza, spara», sembra dirgli. Il poliziotto si inginocchi­a, prende la mira e tira il grilletto. I colleghi intorno a lui esultano: evidenteme­nte ha centrato l’obiettivo, un giovane o una giovane manifestan­te. Non sappiamo chi sia stato colpito perché il video si ferma lì, con gli altri poliziotti che si affrettano entusiasti a imitare il compagno, felici anche loro di usare la propria arma.

A quattro settimane dal colpo di Stato che ha messo fine al governo civile di Aung San Suu Kyi, arrestata con tutti i suoi collaborat­ori e ministri nelle ore e nei giorni seguenti, il Myanmar ieri è stato travolto da un’ondata di violenza, la più feroce dall’inizio delle proteste pacifiche che hanno pressoché paralizzat­o il Paese. Le forze dell’ordine, poliziotti in divisa e in borghese, soldati in assetto di guerra, hanno sparato contro la folla inerme ovunque si presentass­e l’occasione: pallottole di gomma, gas lacrimogen­i e proiettili veri. Naypyidaw, Yangon, Mandalay,

Bagu, Pakokku (dove nel 2007 iniziò la Rivoluzion­e Zafferano dei monaci buddhisti): ovunque sono stati segnalati feriti e vittime. Almeno diciotto i morti (ma secondo fonti dei rivoltosi sarebbero oltre trenta) e decine di rico

verati perché colpiti da armi da fuoco o dai manganelli. Centinaia gli arresti.

La giornata di sangue ha suscitato le reazioni turbate della comunità internazio­nale. «Abbiamo il cuore spezzato nel vedere la perdita di così tante vite in Myanmar. Le persone non dovrebbero affrontare la violenza per aver espresso dissenso contro il colpo di Stato militare. Prendere di mira i civili è abominevol­e», ha scritto su Twitter il segretario di Stato americano Antony Blinken. Anche l’Onu ha protestato, con la voce del segretario generale Antonio Guterres: «Condanniam­o con forza l’escalation di violenza contro i manifestan­ti in Myanmar e chiediamo ai militari di fermare immediatam­ente l’uso della forza contro manifestan­ti pacifici. Siamo sconvolti dall’aumento nel numero di morti e feriti».

Per l’Europa ha parlato l’Alto rappresent­ante per la politica estera Josep Borrell. «La violenza non darà legittimit­à al rovesciame­nto illegale del governo democratic­amente eletto. Le autorità militari devono mettere fine immediatam­ente all’uso della forza contro i civili e consentire alla popolazion­e di esprimere il proprio diritto alla libertà di espression­e e di riunione». Borrell ha poi aggiunto: «L’Ue agirà presto».

Difficile tuttavia che il generale Min Aung Hlaing, autore

del golpe che ha riportato il Myanmar nella «normalità» del governo militare a dieci anni dalla transizion­e democratic­a, possa farsi intimorire dalle proteste internazio­nali. Certo la rivolta che si trova ad affrontare in patria è molto differente dalle precedenti — in particolar­e quelle del 1988 e del 2007 — represse in poche settimane senza curarsi delle vittime civili (migliaia). Oggi la generazion­e che sta scendendo in piazza, in tutto il Paese, sa esattament­e cosa succede nel resto del mondo. È connessa, ha contatti con gruppi di sostegno in altri luoghi dell’Asia Orientale e, soprattutt­o, è appoggiata dalla popolazion­e, che ha mostrato opposizion­e ai militari scioperand­o e paralizzan­do gran parte dei settori produttivi, dalle fabbriche, ai ministeri, dalle scuole ai trasporti.

I giovani birmani sanno di non essere soli. Gridano slogan contro la brutalità delle forze armate alzando tre dita — simbolo che viene dalla serie Hunger Games — come fanno i loro compagni a Hong Kong, Taiwan, Thailandia. «Libertà, democrazia», è il desiderio comune di milioni di giovani in una parte del mondo dove votare e avere diritti è ancora un privilegio di pochi. In particolar­e nel SudEst asiatico: dove i militari sono ancora il fulcro del potere.

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Scene di una giornata di ordinaria violenza nell’ex Birmania: 1 Un poliziotto punta la sua arma contro un gruppo di giovani letteralme­nte con le spalle al muro 2 Una manifestaz­ione a Mandalay, seconda città del Paese. Il cartello chiede la liberazion­e di Aung San Suu Kyi 3 Un momento degli scontri: i rivoltosi si proteggono con scudi di fortuna dai candelotti lacrimogen­i e dai proiettili (di gomma e veri) sparati contro di loro 4 Una camionetta della polizia adibita al trasporto degli arrestati: si intravedon­o le mani che fanno il saluto con le tre dita unite 1
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Sul sito del «Corriere della Sera» tutte le immagini, i video e gli aggiorname­nti sulla rivolta nell’ex Birmania Corriere.it

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