In Birmania la polizia spara sui giovani Morti e feriti
Decine di vittime. Gli Stati Uniti: «Repressione abominevole»
Spari e morti in Myanmar, l’ex Birmania. La protesta anti golpe si trasforma in strage, decine i morti. L’Ue: «Agiremo». E gli Usa: «Repressione abominevole».
Quindici secondi di un video girato di nascosto — poi postato su Twitter insieme a decine di altri — forniscono la brutale, scioccante realtà di un giorno di guerra tra civili disarmati da una parte, e poliziotti e soldati dall’altra.
La scena: Yangon, un tempo conosciuta come Rangoon, la città più grande del Myanmar (ex Birmania). Un viale grigio e deserto, immerso nella caligine dell’estate incipiente del Sud-Est asiatico. Un gruppo di uomini in uniforme si ferma. Un soldato si rivolge a un poliziotto e gli passa il proprio fucile. «Forza, spara», sembra dirgli. Il poliziotto si inginocchia, prende la mira e tira il grilletto. I colleghi intorno a lui esultano: evidentemente ha centrato l’obiettivo, un giovane o una giovane manifestante. Non sappiamo chi sia stato colpito perché il video si ferma lì, con gli altri poliziotti che si affrettano entusiasti a imitare il compagno, felici anche loro di usare la propria arma.
A quattro settimane dal colpo di Stato che ha messo fine al governo civile di Aung San Suu Kyi, arrestata con tutti i suoi collaboratori e ministri nelle ore e nei giorni seguenti, il Myanmar ieri è stato travolto da un’ondata di violenza, la più feroce dall’inizio delle proteste pacifiche che hanno pressoché paralizzato il Paese. Le forze dell’ordine, poliziotti in divisa e in borghese, soldati in assetto di guerra, hanno sparato contro la folla inerme ovunque si presentasse l’occasione: pallottole di gomma, gas lacrimogeni e proiettili veri. Naypyidaw, Yangon, Mandalay,
Bagu, Pakokku (dove nel 2007 iniziò la Rivoluzione Zafferano dei monaci buddhisti): ovunque sono stati segnalati feriti e vittime. Almeno diciotto i morti (ma secondo fonti dei rivoltosi sarebbero oltre trenta) e decine di rico
verati perché colpiti da armi da fuoco o dai manganelli. Centinaia gli arresti.
La giornata di sangue ha suscitato le reazioni turbate della comunità internazionale. «Abbiamo il cuore spezzato nel vedere la perdita di così tante vite in Myanmar. Le persone non dovrebbero affrontare la violenza per aver espresso dissenso contro il colpo di Stato militare. Prendere di mira i civili è abominevole», ha scritto su Twitter il segretario di Stato americano Antony Blinken. Anche l’Onu ha protestato, con la voce del segretario generale Antonio Guterres: «Condanniamo con forza l’escalation di violenza contro i manifestanti in Myanmar e chiediamo ai militari di fermare immediatamente l’uso della forza contro manifestanti pacifici. Siamo sconvolti dall’aumento nel numero di morti e feriti».
Per l’Europa ha parlato l’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell. «La violenza non darà legittimità al rovesciamento illegale del governo democraticamente eletto. Le autorità militari devono mettere fine immediatamente all’uso della forza contro i civili e consentire alla popolazione di esprimere il proprio diritto alla libertà di espressione e di riunione». Borrell ha poi aggiunto: «L’Ue agirà presto».
Difficile tuttavia che il generale Min Aung Hlaing, autore
del golpe che ha riportato il Myanmar nella «normalità» del governo militare a dieci anni dalla transizione democratica, possa farsi intimorire dalle proteste internazionali. Certo la rivolta che si trova ad affrontare in patria è molto differente dalle precedenti — in particolare quelle del 1988 e del 2007 — represse in poche settimane senza curarsi delle vittime civili (migliaia). Oggi la generazione che sta scendendo in piazza, in tutto il Paese, sa esattamente cosa succede nel resto del mondo. È connessa, ha contatti con gruppi di sostegno in altri luoghi dell’Asia Orientale e, soprattutto, è appoggiata dalla popolazione, che ha mostrato opposizione ai militari scioperando e paralizzando gran parte dei settori produttivi, dalle fabbriche, ai ministeri, dalle scuole ai trasporti.
I giovani birmani sanno di non essere soli. Gridano slogan contro la brutalità delle forze armate alzando tre dita — simbolo che viene dalla serie Hunger Games — come fanno i loro compagni a Hong Kong, Taiwan, Thailandia. «Libertà, democrazia», è il desiderio comune di milioni di giovani in una parte del mondo dove votare e avere diritti è ancora un privilegio di pochi. In particolare nel SudEst asiatico: dove i militari sono ancora il fulcro del potere.